Questione di aldeide Il coriandolo, l’erba aromatica amata e odiata

Pianta nativa del Mediterraneo, ai tempi dei Romani era diffusa e utilizzata sia in cucina che per le proprietà curative. Caduta in disuso con la fine dell’Impero, oggi è tornata in auge come ingrediente di piatti asiatici e sudamericani

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Nella cucina italiana, molti ingredienti considerati tradizionali sono acquisti relativamente recenti. Un classico è il pomodoro, importato dalla Spagna nel Cinquecento e originario del Nuovo Mondo, mentre altri, utilizzati per secoli, sono stati dimenticati e ormai sono considerati esotici. Tra questi c’è il coriandolo, noto anche come prezzemolo cinese o cilantro, con un profumo e un sapore che ricordano quello del cumino, dell’aneto e del finocchio e, ai detrattori, quello del sapone.

Oggi in Italia il suo uso è associato ad alcune cucine asiatiche, come quelle indiana, cambogiana e thailandese, o latino-americana. Una presenza gradita o aborrita, il coriandolo a volte suscita sentimenti estremi.

Quello che non sappiamo, però, è che si tratta di una specie autoctona, nativa dell’Europa, del Medio Oriente e del Nord Africa, che nell’antichità era coltivata e mangiata comunemente anche in Italia.

Nel più famoso ricettario dell’epoca latina, il “De re coquinaria” di Apicio, il coriandolo è presente nel diciotto per cento delle ricette, che si tratti dei semi o delle foglie: era utilizzato nelle salse, nell’insalata, negli arrosti, per insaporire le bevande. Giusto per fare un paragone, nelle 790 ricette di “La scienza in cucina e l’arte del mangiare bene” del gastronomo Pellegrino Artusi, uscito nel 1891 e testo fondante della cucina italiana, le foglie di coriandolo non sono mai presenti, mentre i semi sono usati solo in quattro dessert.

L’antica Roma aveva appreso l’uso del coriandolo, come tante altre cose, dal mondo greco. E i suoi semi sono stati trovati in diversi siti archeologici, da Pompei fino ai confini dell’Impero. Piaceva, evidentemente, ma si pensava avesse anche proprietà curative. Secondo Plinio il Vecchio, i semi aiutavano a espellere i vermi intestinali e le foglie erano efficaci contro ulcere, febbri terzane e colera.

L’erboristeria moderna consiglia i semi di coriandolo per la loro azione spasmolitica gastrointestinale, carminativa, eupeptica, aperitiva, antimicrobica, ipoglicemizzante, utile nel meteorismo e negli spasmi gastrointestinali.

Inoltre, il coriandolo aiutava a conservare i cibi, funzione sempre utile in mancanza di frigoriferi, grazie alle proprietà antibatteriche dei semi. Che ancora oggi compaiono nel mix di spezie e aromi che compongono la concia per la porchetta, oltre che in alcuni digestivi, come aromatizzante per i sottaceti, soprattutto tedeschi e scandinavi, e in alcuni tipi di pani e di dolci.

Plinio il Vecchio racconta che il coriandolo migliore cresceva lungo e rive del Nilo, in Egitto: qui si aggiungeva al vino insieme all’aglio, mentre i semi erano mescolati all’impasto del pane e servivano come ingrediente di una salsa per le ostriche.

La fine del momento d’oro coincide con la disgregazione dell’Impero. I popoli germanici non lo apprezzarono mai, non aveva l’aura di ricchezza ed esotismo di spezie orientali di importazione, come la cannella e il cardamomo, e nella cucina medievale, dove trionfavano lo zucchero e l’acqua di rose, non c’era posto per il suo gusto fin troppo deciso e particolare.

Nel Rinascimento solo i semi erano ancora in uso come spezia, oppure come ripieno per i confetti: ricoperti di zucchero, venivano offerti dopo cena come digestivo e lanciati in aria durante le feste. Da qui, nascono i coriandoli di carta, una versione più soft da lanciare addosso a qualcuno, che in inglese bizzarramente conservano il loro nome italiano originale: confetti, appunto.

In quanto alle foglie, i pareri erano e sono più che mai discordi. Nel 1544 il fisico e botanico Pietro Andrea Mattioli scrisse che le foglie odoravano di cimici, parere condiviso dallo scrittore francese Olivier de Serres. Nel 1597 l’erborista inglese John Gerard lo definì un’erba «molto puzzolente» con foglie addirittura «velenose».

Tra gli odiatori contemporanei più noti, si annovera la cuoca, gastronoma e conduttrice televisiva Julia Child, portatrice del verbo della cucina francese negli Stati Uniti, che in un’intervista con Larry King disse senza mezzi termini che il cilantro sapeva «di morto».

Altri accostamenti popolari sono con le saponette, i disinfettanti, i piedi, il marciume, la pipì di gatto, e naturalmente le cimici.

I ricercatori dicono che i maggiori odiatori del coriandolo sono i caucasici (17 per cento), gli asiatici (21 per cento) e gli africani (14 per cento), che le donne lo detestano più degli uomini, e che ci potrebbe essere una causa genetica: una sensibilità olfattiva a un’aldeide contenuta nelle molecole dell’odore delle foglie del coriandolo, la stessa, per inciso, responsabile dell’odore repellente emesso da alcuni insetti.

Chi invece ama il suo aroma fresco e pungente, dal sentore agrumato, sa che il coriandolo, sia in foglie sia come seme, si può usare in cucina davvero in ogni modo: zuppe e minestre, piatti di verdure o secondi di carne e di pesce, insaccati come la mortadella e la salsiccia, per insaporire piatti di selvaggina e formaggi, in abbinamento con i cavoli e con i crauti, magari come accompagnamento allo stinco di maiale arrosto.

Le combinazioni migliori del coriandolo sono con il timo, il pepe nero in grani, l’aglio e la noce moscata per la preparazione del purè di patate, ma anche solo aggiungerlo a un’insalata di stagione e a contorni di ortaggi e verdure sottolio dona a piatti un gusto unico.

Poi, ci sono le tante ricette internazionali dove il coriandolo è protagonista, come il pico de gallo messicano, un contorno a base di pomodori, cipolle, peperoncini, lime e foglie di coriandolo, particolarmente adatto a questa stagione bollente, e molte zuppe asiatiche, come il Bun Bo Hue, un’antica e gustosa ricetta vietnamita, con vermicelli di riso e manzo.

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