«Non sono qui per rubar via i cuori; non sono un oratore, come Bruto, soltanto un uomo, come tutti sapete, semplice, schietto, che vuol bene al suo amico». Lo dice Marc’Antonio nel “Giulio Cesare” di Shakespeare (Adelphi l’ha appena ripubblicato nella traduzione di Rodolfo Wilcock), in quel monologo la cui parte iniziale conoscono anche quelli che non sono mai stati a teatro in vita loro.
Quella parte iniziale, quella su Bruto che è un uomo d’onore, e l’intero monologo, stanno all’antifrasi come le pasticcerie viennesi stanno alla Sachertorte, e mi chiedo in quanti se ne accorgerebbero oggi. Oggi che prendiamo tutto alla lettera.
Oggi che Marc’Antonio che dice di sé «manco di ingegno, di parole, di autorità, di mimica e dizione, di quella forza che trascina gli uomini: io solo so parlare direttamente; io vi dico quel che già sapete» è indistinguibile da chi queste cose le dice sul serio, da chi vi somiglia davvero, vi conferma ciò che volete sentirvi dire e già sapete come unico modulo comunicativo; da chi del sestessismo ha fatto reddito e come Marc’Antonio aizza le folle ma senz’alcun sottotesto.
A settembre del 1980, Richard Burton annota nei suoi diari che Peter O’Toole era stato massacrato dai critici per un “Macbeth”, e che ci sono certi che la critica massacra sempre – lui, O’Toole, Sinatra, Brando, la Taylor e la Streisand – e quelli che mai: Redford, Newman, De Niro. Ma la parte interessante è la telefonata che fa a Peter O’Toole, in cui gli chiede come sia il teatro, quello risponde «Pieno», e Burton risponde «E allora».
Certo, può essere che sia perché, se la critica ti stronca, devi convincerti che solo il giudizio del pubblico abbia valore. Ma mi chiedo se non sia anche perché c’è stato un tempo in cui il pubblico era meno scemo di ora (facevano pur sempre la fila per “La dolce vita”; adesso fanno la fila per i panini senza mollica visti su TikTok, e “La dolce vita” uscirebbe direttamente su piattaforma e sarebbe meno visto di “Lol”).
E inizio a pensare che non sia solo che una volta gli scemi li vedevamo meno (io tutto questo paese reale che si strugge in pubblico perché gente che non avevo mai sentito nominare divorzia non l’avrei incrociato, quando le pene d’amore di Soraya erano oggetto di dibattiti privati e non con amici che non conosci e con cui parli in pubblico). È proprio che la scemenza dà dipendenza, si autoalimenta, scatena quelle endorfine che ci hanno illuso tutta la vita procurasse la ginnastica (ma quando mai) e che invece vengono dal compiacimento del riconoscersi: sono tutti scemi come me, essere scemi va bene.
È il 1989. Non è ancora iniziato il dianaspencerismo, Robert Hughes non ha ancora tenuto le conferenze che diventeranno “La cultura del piagnisteo” (Adelphi anche questo), noialtri ancora non abbiamo capito che china stiamo prendendo; Julio Velasco sì. Uno dei pochi vantaggi d’avere l’internet sul telefono e un secolo d’archivi gratuiti è che potete mollare quest’articolo, andare su YouTube, e guardare la conferenza stampa in cui Velasco, allenatore d’una nazionale (maschile) che perde, sintetizza il secolo successivo col più esaustivo degli slogan: la cultura degli alibi.
Secondo il giocatore che pratica la cultura degli alibi – riassumo Velasco casomai foste in spiaggia senza cuffie e apparteneste a quella minoranza ostinatamente beneducata che non vuole imporre l’audio del proprio YouTube agli altri bagnanti – io dovrei prendermela con la sabbia se lui, abituato al parquet, nelle partite estive non riesce a saltare altrettanto bene sulla sabbia: sabbia, fatti parquet. (Velasco dice che cominciò a irritarsi per questo atteggiamento a diciassette anni, il che forse significa che il non essere un frignone è una qualità innata, e a giudicare dall’umanità che abbiamo intorno anche un gene recessivo).
Il tuo ruolo, spiega Velasco nell’89 a un’umanità che già capiva andasse verso la totale deresponsabilizzazione personale, e quindi verso la scemenza assoluta, se sei uno schiacciatore che la manda fuori, non può essere dire all’alzatore che non te l’ha alzata abbastanza precisa, e l’alzatore a quel punto si volterà verso la ricezione per dar la colpa a loro, e il ricevitore non potendo scaricare la responsabilità su come gli hanno mandato la palla gli avversari dirà che ha una luce negli occhi, e allora se la squadra perde è colpa dell’elettricista. «Io non accetto da parte dei giocatori che mi vengano a dire “questo non posso perché”, e il perché non c’entra con loro».
In questi giorni nessuno ha chiesto a Velasco della cultura degli alibi: non ce ne sarebbe stata ragione, stavano vincendo. Lui ha detto comunque solo cose intelligentissime – che è un’abilità specifica, diversa dal sapere fare il tuo lavoro d’allenatore e assai più sexy – in tutte le interviste prima e dopo la finale.
«Le giocatrici e i giocatori non sono tutti uguali: ci sono giocatori più importanti, giocatrici meno importanti, la prima cosa chiara in questo è il conto in banca». Già solo questa frase, in un’intervista televisiva all’inizio dell’anno, a incarico appena ricevuto, dice che Velasco ha il vantaggio novecentesco di potersi permettere di dire l’indicibile giacché il suo atout non è il consenso ma il talento.
Poi arriva a Parigi («Sognavo di andare a Parigi anche a lavare i piatti, da ragazzo; adesso vado a giocarmi un’olimpiade: c’è stato qualche progresso, diciamo»), e sostanzialmente dice ai giornalisti che hanno rotto i coglioni col lamento dell’oro olimpico che manca alla nazionale italiana, che lui a quella volta che ha perso non ci pensa mai, che anche Baggio non dovrebbe rimuginare sul rigore sbagliato.
Ovviamente il pubblico non capisce un cazzo di niente e pensa che uno che di mestiere ha sempre gareggiato per vincere stia dicendo che la vittoria non è importante. Non è una novità. Tre anni fa Simone Biles si ritirò, non me lo ricorderei se non fosse che in questi giorni alcuni picchiatelli sui social hanno ripescato un articolo (di cui ovviamente non ricordavo una parola) che avevo scritto.
C’era scritto quel che potrei scrivere adesso di Velasco, o di Mattarella che fa andare al Quirinale anche quelli arrivati quarti, e della distanza tra gli acclamatori e gli acclamati: certo che se non pensavi neanche di qualificarti ma arrivi quarta è già un risultato di cui essere contenta, ma altrettanto certo è che se di mestiere fai l’agonista vorrai vincere. Non è che l’importante sia partecipare (ma per favore): è che il tuo ritirarti, il tuo quarto posto, il tuo essere contenta comunque fanno sentire meglio me sul divano, me mediocre, me che mai mi qualificherei ma voglio specchiarmi in te.
«Io vado a fare una copertura di un’attaccante non perché è mia amica: lo vado a fare perché va fatto». Un’intervista dopo l’altra, Velasco ha demolito tutti i frasifattismi con cui ci consoliamo, pure l’importanza dei buoni rapporti nel gruppo, e l’ha potuto fare perché vinceva: i risultati – il talento – sono quel che ti serve per fottertene del consenso.
Il pubblico di Burton e O’Toole e della “Dolce vita” era più intelligente o era un pubblico per cui era facile entusiasmarsi per roba non scema perché l’intrattenimento gli dava “La dolce vita” e a teatro c’era Richard Burton invece di Angelo Duro? (Sì, lo so che ogni epoca ha avuto i suoi Angelo Duro; la domanda è se ogni epoca abbia i suoi Richard Burton).
Siamo un secolo così scemo che per il dissenso abbiamo inventato la categoria “hater”. Ma chiunque sa che l’internet è tutta scema uguale, nel dissenso e nel consenso. L’altro giorno ho scritto, in risposta al tweet d’un tizio con molti follower, che Velasco è soprattutto molto sdraiabile. È stata una delle poche volte in cui non ho previsto il conseguente tamponamento a catena: la sdraiabilità di Velasco mi pareva incontrovertibile.
E invece. Tra le indignazioni mi ha commosso per la sua stolidità “Viviana”, bio social «antifascista e pacifista», che spera «di aver frainteso», e non capisce «come si possano fare certe affermazioni così impunemente». La capisco: anch’io mi indigno quando le mie coetanee lanciano le mutande a Blanco o altro ventenne che mi pare proprio poco interessante. Escludo però che l’interessato possa essersi offeso, avendo una certa lucidità su cosa significhi essere una persona famosa, come ha ripetuto in molte interviste olimpiche: «Si crea un personaggio che noi non controlliamo più: io, Julio, non controllo “Julio Velasco”. Gli fanno dire quello che vogliono, lo mettono in tutte le salse». Ma torniamo a “Viviana”, che s’illude di capire il mondo e al mondo notifica le sue analisi.
Quando “Fabio” (foto di apertura della pagina: striscione con scritto «antifascista»; bio social: «#accountdesalvinizzato») le spiega che l’accusata – io – «ha solo espresso il desiderio sessuale», pur stigmatizzando ch’io abbia usato «una terminologia un po’ grossolana» (ohibò), “Viviana” non ci sta, a lei non la si fa, lei vede il losco disegno sottostante con la chiarezza con cui il pubblico di prima dell’istruzione obbligatoria vedeva il sottotesto di Marc’Antonio.
«No, Fabio. Non credo sia questo. Ho l’impressione che ci sia la volontà di “sporcare” Velasco, perché portatore di un messaggio fortissimo, contro il razzismo, contro il patriarcato, contro l’imbecillità dilagante». Non quella di “Viviana”, naturalmente. Quella, di imbecillità, Velasco la appoggia sicuro. (Per non parlare di quanto sarà lieto l’antifascismo di stare nelle bio di ogni scemo che si percepisce sveglio).
Una delle grandi doti da intervistato di Velasco è la capacità di dirottare con grande garbo la domanda sbagliata dando la risposta che avrebbe dato se avessero saputo fargli la domanda giusta. In una delle interviste dopo la vittoria, gli chiedono se i social siano un problema per la serenità delle giocatrici, e lui spiega che il problema è il cellulare.
«Un giocatore che era in un’olimpiade anni fa non era possibile raggiungerlo. Ora siamo raggiungibili ovunque. La pressione degli amici, dei familiari, di quelli che ci vogliono bene, “Allora portiamo l’oro?”: tutti i giorni? Eppure lo fanno in buona fede». La buona fede non basta, l’essere fan non basta, i valori giusti in bio non bastano. Quando tutti hanno la possibilità di dirti la loro, quando ritengono che il loro ruolo sia quello e non comprare un biglietto per venirti a vedere a teatro, sei comunque fottuto.
C’è comunque quel continuo rumore di fondo, che vuole dirti tu sei come me, tu mi rappresenti, tu mi assomigli, a me sul divano, a me che mai combinerò niente nella vita, a me che manco di ingegno e non sono un oratore. Siamo uguali, io e te Shakespeare, io e te Velasco.
Shakespeare scrisse il “Giulio Cesare” negli stessi dieci anni (in cui Londra aveva problemucci come la peste) in cui scrisse altra robetta come l’“Otello”, il “Re Lear”, il “Macbeth”. Il pubblico non aveva la lavatrice, e dovendo andare a lavare i panni nel Tamigi non si trovava con ore vuote di noia da riempire spiegando il proprio interessantissimo parere ai drammaturghi.
E lui comunque non aveva un cellulare con le notifiche: niente rumore di fondo. A te, che vorresti combinare qualcosa in questo secolo in cui il pubblico smania per dirti la sua, non resta che spegnere il cellulare, per salvarti. E, come Velasco e ogni persona sana di mente, stare lontano dai social.