C’è una cosa che manca nel nuovo discorso di Matteo Renzi. Forse ne parlerà oggi a Pesaro alla Festa dell’Unità. Lo aiuterebbe a creare un buon clima. Quel che manca è l’analisi della sconfitta, come si dice nel linguaggio della sinistra, cioè un ragionamento sul perché il Terzo Polo è fallito. Se Renzi non parte da questa analisi, che ovviamente implica un’autocritica (a meno che non si voglia fare come Carlo Calenda che se la prende col destino cinico e baro), su ogni suo passo graverà l’ombra del sospetto che già gira: e cioè che egli abbia cambiato linea non per intimo convincimento ma per puro calcolo di sopravvivenza.
E allora, cosa non ha funzionato? Dov’erano le famose praterie fuori dai poli? Perché Italia Viva, certamente adesso ma anche prima, non ha raggiunto un consenso dignitoso? Questo Renzi dovrebbe spiegare. Anzi, avrebbe già dovuto esplicitare queste cose prima di cambiare drasticamente linea quando ha detto di voler rientrare non nel Partito democratico, che oggi sarebbe assurdo, ma nella coalizione di centrosinistra. Troppo repentina è stata la svolta. È normale che tanti militanti del Partito democratico siano quantomeno scettici, anche se nella storia la sinistra ha ingoiato ben altro che Renzi.
In politica le cose sono più sofferte, persino dolorose. Non basta contare sul fatto che Elly Schlein abbia proclamato che non ci saranno veti da parte sua. Forse se Renzi non l’avesse bombardata sin dall’inizio, peraltro spesso motivatamente, la segretaria del Partito democratico avrebbe aperto a lui anche prima.
Forse se dopo le elezioni di due anni fa e la nascita del governo Meloni egli avesse preso duramente e inequivocabilmente posizione contro la nuova premier (come sta facendo da un mese), oggi sarebbe più credibile come partner del centrosinistra.
Ma soprattutto l’errore è stato di analisi. Non ha visto, Renzi, che in conseguenza della conquista del governo da parte di una destra aggressiva con tratti reazionari, si stava determinando una speculare ansia unitaria a sinistra: insomma, non ha capito che, malgrado i suoi desideri, stava ritornando lo strano bipolarismo italiano, che sarà pure muscolare, come ha scritto ieri Davide Faraone, ma hic Rhodus hic salta. E di fronte a tutto questo non poteva bastare le pur abile alchimia della lista “Stati Uniti d’Europa”, peraltro in una competizione parossistica e grottesca con Azione.
Difficile dire, poi, se le mitiche praterie riformiste esistano per davvero. È probabile che più che praterie siano delle radure circoscritte.
In ogni caso, i riformisti non sono in grado di stare da soli, e per ragioni che sono persino radicate nella storia italiana, e forse questo “isolazionismo” nemmeno è il loro compito storico, che piuttosto pare quello di compensare, e semmai sconfiggere dall’interno, le punte estremistiche del centrosinistra (l’unico campo in cui i riformisti possono stare, giacché il tasso di riformismo in questa destra tende allo zero).
Insomma, l’azzardo di Renzi non è quello di voler dire la sua, possibilmente evitando – tutti – di continuare a darsele di santa ragione, in un centrosinistra che va pensato come la «grande tenda» dei progressisti (è la lezione che viene da Chicago): l’azzardo piuttosto è stato quello di voler costruire una piccola tenda distinta e distante da tutti. Un azzardo finito male. Bisognerebbe dirlo, tematizzarlo: il congresso Italia Viva lo deve fare per questo, non per regolare qualche conto personale, e per offrire al Partito democratico, principale se non esclusivo interlocutore, una forte proposta politica di collaborazione per il prossimo governo del Paese.