La Louisiana degli anni Quaranta era diversa dall’Instagram degli anni Venti? Apparentemente sì per mille dettagli, dal segregazionismo all’impossibilità per le donne d’essere economicamente indipendenti; potevi aprirti un conto corrente solo con la firma del padre o del marito, l’ho già detto un milione di volte e non smetterò mai di trovarlo pazzesco: a volerci insegnare il femminismo è un paese in cui fino al 1974 una donna non poteva chiedere un prestito autonomamente, e nel 2024 non ha il congedo di maternità retribuito se non come graziosa concessione aziendale.
Però c’è evidentemente qualcosa di uguale tra la New Orleans messa in scena dal trentaseienne Tennessee Williams e il mondo d’oggi, se di fronte ai casi di cronaca mi trovo sempre più spesso a pensare a Blanche DuBois, e non solo perché il personaggio più tragico del Novecento americano era una trentenne che velava le lampade per il terrore che le si vedessero le rughe, e i nostri telefoni sono pieni di ragazze così abituate a guardarsi coi filtri che non sanno più che faccia hanno davvero.
Cosa c’entra Bianca Balti con Blanche DuBois? Bianca Balti è una modella quarantenne che due anni fa rende pubblica la sua doppia mastectomia. Si è tolta il seno perché ha quella mutazione genetica che ti rende molto più a rischio di tumori al seno e alle ovaie, e ora – viva il progresso scientifico – c’è la possibilità di togliersi preventivamente le parti che potrebbero ammalarsi.
Balti però toglie solo il seno, per ragioni che non sono chiare, nel senso che abbiamo il giornalismo che abbiamo e io non so se sia vero ciò che è stato scritto in questi giorni, ovvero che Balti voleva una terza figlia (ne ha già due) e quindi, prima di farsi asportare le ovaie, si sarebbe sottoposta a stimolazione ovarica per poi congelare gli ovuli.
È vero e imprudente, o è una stratificazione di informazioni imprecise dovute al fatto che Balti aveva detto d’essere a favore del congelamento degli ovuli e di volerlo regalare alla figlia per il suo ventunesimo compleanno? Non lo so, non lo sapete neanche voi (se non siete il medico curante della signora Balti), e non ci riguarda, come non ci riguarda quasi tutto ciò che ci compare nel telefono, anche se abbiamo la tentazione di credere che gli sconosciuti che vediamo sullo schermo siano nostri amici.
Non sappiamo come sia andata ma le ovaie sono ancora lì, e la ragione per cui lo sappiamo è che lunedì Bianca Balti ha messo su Instagram una carrellata di foto e video di lei in ospedale, tra cui chiamate fatte a parenti in cui spiegava cos’era successo e poi tornate utili per spiegarlo al suo milione e mezzo di follower. Quel che è successo è che è andata al pronto soccorso perché aveva mal di pancia, e le hanno trovato un tumore alle ovaie al terzo stadio.
Di nuovo: com’è possibile che una che sa d’essere a rischio per quello specifico tumore non sia abbastanza sotto controllo da trovarlo prima che arrivi al terzo stadio? Di nuovo: non lo sappiamo e non ci riguarda. Ma le diciannove immagini con cui Balti dice al mondo d’avere il cancro diventano, inevitabilmente, uno spettacolo da commentare.
Io non so se la signora Balti pratichi la regola di molte persone famose, quella di non leggere i commenti, o se invece come altre persone famose passi il tempo a cercare cosa dicono di lei: se sia della scuola Brad Pitt o di quella Robert Downey jr.
So però che, in quarantott’ore, io ho letto di tutto su una quarantenne con un cancro non dei più semplici, una della quale quando eravamo sani di mente (o non lo eravamo ma non avevamo i mezzi per far sapere al mondo quanto eravamo picchiatelli) avremmo detto cose come «ma povera crista».
Che nei video dall’ospedale ride troppo, cosa ridiiii, è una cosa graveeee (non avete evidentemente mai visto qualcuno in postoperatorio sotto morfina). Che nei video dall’ospedale per fortuna ride perché è ora di finirla di dire che il cancro è una guerra e allora mia moglie oltre che morta era pure non abbastanza combattenteeee.
Che in America vogliono levarti le tette preventivamente invece di dirti di mangiare bene e dormire molto e non uscire nelle ore più calde («bere tanta acqua» non lo dicono perché, essendo una modella, immaginano lo faccia già). Che il cancro ce l’ho avuto anch’io (principale utilizzo del telefono: quello in funzione di specchio).
Che «è il giusto karma per chi ha fatto propaganda al vaccino sperimentale» (il primo partito che mette l’obbligo per le scuole di spiegare ai futuri picchiatelli che il karma riguarda le vite successive e non quel che ti succede il giorno dopo o l’anno dopo, quel partito ha il mio voto).
Ho letto di tutto, e ho pensato a quel finale di “Un tram che si chiama Desiderio”, quando Blanche dopo essere stata cacciata, violentata, sposata con un omosessuale, dopo non esser stata creduta quando inventava vite meno dolorose, desideri più ricambiati, esistenze meno in balìa degli altri, si arrende allo psichiatra che la porta via, e gli dice quella frase che è diventata la sinossi di questo secolo.
Blanche che non aveva un’identità né una professione né un conto corrente era, per sorte e per disperazione, quel che noialtre scegliamo d’essere per folle determinazione, quando diamo in pasto all’internet le nostre vite, le nostre morti, le nostre gioie, le nostre malattie, le nostre fortune, le nostre sfighe, ci denudiamo nella telecamera del telefono e speriamo che i passanti quel giorno non si siano svegliati troppo crudeli, troppo infelici e quindi smaniosi di far pagare la loro infelicità agli altri, troppo annoiati e pronti a usarci come bersaglio delle freccette.
Che siamo persone normali o modelle famose in tutto il mondo a un certo punto sentiamo l’urgenza di offrirci alla disposizione d’animo d’un pubblico indifferenziato e quasi sempre privo di strumenti culturali e di garbo emotivo. Come Blanche DuBois ma con dolo, decidiamo quel che lei mica aveva potuto decidere: che la nostra esistenza dipenderà dalla gentilezza degli sconosciuti.