A cena fuoriIl presente e il futuro dei dehors nelle città povere di spazi comunitari

Tavolini e sedie di locali, pub e ristoranti hanno occupato marciapiedi e piazze, togliendo spazio pubblico alle persone a piedi. Ora però serve tanta immaginazione politica per invertire la tendenza

LaPresse

Se lo slalom tra i tavolini sparsi sul marciapiede fosse uno sport olimpico, i residenti delle città italiane farebbero incetta di medaglie d’oro. Il tema dei dehors, termine che indica l’area esterna di un pubblico esercizio (dunque non necessariamente i classici gazebo), sta diventando il riflesso della privatizzazione degli spazi urbani, pensati per cittadini e turisti con una certa capacità di spesa, ma sempre più escludenti per chi vuole fare una passeggiata senza il portafoglio in tasca.

I dehors hanno vissuto il loro momento di massima espansione durante il Covid, quando il governo Conte II aveva stanziato dei fondi per consentire a bar e ristoranti di non pagare la tassa di occupazione del suolo pubblico. L’obiettivo era duplice: limitare i contagi nei luoghi al chiuso e compensare i cali di fatturato dovuti alle restrizioni. Stando alle stime della Federazione italiana degli esercenti pubblici e turistici (FIEPeT), gli spazi all’aperto allestiti «dalle imprese di pubblico esercizio» sono aumentati di 750mila metri quadri, con 180mila tavoli in più. Oggi, secondo la Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe), il cinquantacinque per cento dei locali ha tavolini all’esterno, e il 7,6 per cento delle attività ha ampliato l’occupazione di suolo pubblico rispetto al periodo precedente al Covid. 

Terminata la pandemia, il pagamento delle aree occupate dai dehors è stato ripristinato. Nel frattempo, il volto delle nostre città è cambiato. Non per forza in meglio. Nei quartieri più frequentati e movimentati, infatti, i marciapiedi stanno perdendo la loro funzione originaria: una degenerazione impattante soprattutto su bambini, anziani e persone con disabilità, che in alcuni punti – tra auto in sosta vietata e dehors invasivi – non riescono a procedere. 

Secondo Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano, si è verificata «una sottrazione dello spazio pubblico, ridotto poi a spazio del consumo. Per stare in questi spazi devi per forza consumare, e alcune volte è persino consentito fumare. Sono spazi ibridi e anomali, in cui vigono delle regole che esistono solo lì. È bello mantenere la natura estroversa della città, ma qui c’è un problema di deregulation». È dunque necessario ripensare la gestione e la distribuzione di queste soluzioni allettanti sia per i clienti (bere un drink all’aperto, soprattutto con le temperature invernali sempre più alte, è senza dubbio piacevole), sia per i proprietari dei locali, ma rischiose in termini di invasione dello spazio pubblico.

Cecilia Fabiano/ LaPresse

A Milano il tema è particolarmente sentito, anche perché la proliferazione dei dehors durante la pandemia ha di fatto cancellato numerosi parcheggi per le auto (duemilaquattrocento, secondo il Corriere della Sera). In più, è subentrata la questione della quiete dei condòmini nelle zone della movida: a maggio è stata pubblicata l’ordinanza sindacale che, nelle vie in cui si concentra la vita notturna milanese, «limita gli orari di utilizzo di dehors dalle ore 1.00 alle ore 6.00 nei giorni feriali e dalle 2.00 alle 6.00 nei festivi», vietando anche «la vendita e la somministrazione per asporto delle sole bevande alcoliche» dalla mezzanotte fino alle 6 del mattino.

Ai tempi del Covid, racconta a Linkiesta il consigliere comunale di Milano Marco Mazzei (Lista Sala), «concepivo i dehors come interventi capaci di ridurre i parcheggi per le auto e di aumentare gli spazi per la socialità. Ora lo noto anche io: soprattutto in certe zone, lo spazio per la socialità è diventato lo spazio per i privati. Adesso bar e ristoranti pagano per occupare suolo pubblico. Indipendentemente dalle cifre versate, però, il ritorno economico è talmente alto che per un locale è sempre conveniente avere un dehors». Mazzei, verso la fine del 2021, aveva proposto un emendamento (poi approvato) volto a eliminare il criterio della stagionalità alle cosiddette occupazioni leggere, permettendo a bar e ristoranti di mantenere i dehors anche durante i mesi freddi.

Nel frattempo, con l’approvazione del Ddl Concorrenza nel luglio 2024, è intervenuto anche l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, che vuole rendere i dehors “pandemici” permanenti. La norma ha prorogato fino al 31 dicembre 2025 l’efficacia delle autorizzazioni e delle concessioni rilasciate in via emergenziale durante la pandemia, limitando – come per la sicurezza stradale – l’autonomia dei Comuni. Sempre il governo – entro un anno dalla pubblicazione del suddetto disegno di legge – dovrà pubblicare un decreto legislativo per «riordinare e coordinare la concessione ai pubblici esercizi di spazi e aree pubbliche di interesse culturale e paesaggistico per l’installazione di strutture amovibili funzionali all’attività». 

Le città sono ancora in tempo per trasformare i dehors in spazi di qualità, inclusivi e non invasivi. Per farlo, oltre agli interventi normativi, ci vuole un mix tra immaginazione politica e capacità di copiare modelli virtuosi. Come spiega Marco Mazzei, «a New York ci sono delle installazioni pubbliche fatte esattamente come dei dehors. Non sono necessariamente chiuse, assomigliano a banchine di legno messe per strada al posto di uno o due parcheggi per le auto; di fianco ci sono cartelli che dicono: “Questo spazio è a disposizione della comunità del quartiere”. Tu, insomma, puoi prendere un caffè all’angolo e berlo dentro questo spazio pubblico, abbellito anche da qualche pianta».

È necessario stabilire, prosegue Mazzei, «il numero massimo di dehors per ogni strada», e a quel punto fare una suddivisione equa tra spazi privati e pubblici. Per esempio «un ristorante potrebbe avere un dehors a disposizione della cittadinanza negli orari giornalieri in cui, essendo chiuso, non lo utilizza».

Il Comune di Milano, attraverso un progetto della sua task force per la Sicurezza stradale e la Mobilità attiva, vuole anche indire un concorso pubblico per incentivare la diffusione dei parklet, nati a San Francisco nel 2005 e simili alle banchine newyorkesi citate poco fa. Si tratta di soluzioni modulari, spesso realizzate in legno, che ospitano spazi verdi, rastrelliere e servizi per la cittadinanza; queste piattaforme temporanee, al centro di molti interventi di urbanistica tattica, sono un’estensione del marciapiede e vengono installate direttamente sulla carreggiata, al posto dei parcheggi per le automobili.

Un parklet a San Francisco (San Francisco Planning Department/Flickr)

Secondo l’architetta e urbanista Elena Granata, «l’urbanistica tattica funziona bene negli spazi scolastici, nelle zone molto marginali e nei controviali». Per gli altri luoghi, come le piazze urbane ormai ridotte a grandi dehors, la docente del Politecnico ha un’idea diversa: «Si potrebbe fare come nelle spiagge pubbliche dove c’è un operatore che ti dà un ombrellone, ma rispetta la natura pubblica della spiaggia. Io opterei per un ibrido del genere. Benissimo, metti i tavoli, ma se la gente vuole sedersi senza consumare dovrebbe poterlo fare». Un caso virtuoso è quello dei Giardini Luzzati, a Genova, dove le persone possono sedersi sui tavolini in piazza senza l’obbligo di consumazione, vivendo lo spazio – dove spesso vengono organizzati concerti, presentazioni di libri e altri eventi – in modo indipendente. 

Insomma, il problema vero non è solo la quantità dei dehors, bensì la loro qualità. «Non sono troppi, ma troppo privati», dice Mazzei, secondo cui «un altro tema è quello del conflitto con i pedoni. Alcuni locali sono attenti e rispettosi, altri se ne fregano e si allargano troppo. E tra sedie, cartelli e poltrone, l’intero marciapiede diventa privato. È molto irritante, sono casi clamorosi di invasione dello spazio. Penso anche alle strutture semi-mobili: partendo da un dehors classico viene costruita una struttura vera e propria, una sorta di “pezzo di locale” che esce sul marciapiede in modo molto invasivo». Per porre un argine alla loro proliferazione sregolata, conclude il consigliere comunale, «non serve invocare più controlli da parte della polizia locale, ma puntare su azioni di sensibilizzazione mirate a enti di categoria, Confcommercio, Confesercenti e simili». 

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