Scelta esistenzialeMeloni deve accettare la sfida di Draghi se non vuole relegare l’Italia alla periferia dell’Ue

Il rapporto sulla competitività europea dell’ex premier e presidente Bce mette in difficoltà la leader di Fratelli d’Italia, costretta a tornare nei ranghi, gamba destra nella maggioranza Ursula. L’alternativa è un deragliamento verso lidi orbaniani e patriottici

Lapresse

Raffaele Fitto condivide quasi alla virgola il rapporto sulla competitività che Mario Draghi ha illustrato a grandi linee prima agli ambasciatori dei ventisette Stati membri e poi ai leader politici dell’Eurocamera. Per evitare l’incubo del tramonto del sogno europeo, l’ex premier e presidente della Bce chiede ai governi dell’Unione europea di mettere da parte le divisioni, lanciarsi in «una cooperazione senza precedenti», evitare di perdere competitività a causa dei «freni strutturali», portare i prezzi dell’energia ai livelli dei concorrenti. Alzare lo sguardo per acquisire maggiore competenze, per superare la lentezza nella digitalizzazione e dare impulso alla Difesa comune. Insomma, fare di tutto per non essere schiacciati come un vaso di coccio dalla Cina e dagli Stati Uniti e non mostrare segni di cedimento politico, economico e militare nei confronti della Russia.

Vedremo cosa sarà in grado di fare la nuova Commissione Ue e quanto freneranno i governi delle varie capitali, che non godono di ottima salute. Vedremo cosa Ursula von der Leyen riuscirà a tirare fuori dall’esperimento di unità europea, una larga intesa in cui viene coinvolta anche Giorgia Meloni. Nonostante la premier italiana al Consiglio si sia astenuta sulla rielezione della signora tedesca del Ppe e abbia fatto votare contro i suoi Conservatori a Strasburgo.

Ma la politica in tutte le latitudini richiede le flessibilità necessarie alle circostanze e le elastiche ipocrisie che l’avanzata delle destre impongono. Per cui Meloni, che non voleva sedersi con i Socialisti e si sente la cerniera con la destra più radicale, ora invia a Bruxelles il più moderato, dialogante, competente e democristiano della sua squadra, Fitto appunto, che meglio di così Antonio Tajani, Forza Italia e i Popolari europei non potevano sperare.

Anche a lui, con un portafoglio pesante e la vicepresidenza vicaria, a quanto pare, von der Leyen recapiterà la lettera d’incarico che contiene molte delle idee contenute nel report di Draghi. E già molti immaginano quanto Fitto sia europeista, non soggetto ai voleri del dante causa romano. Non a caso, per lui già fanno il tifo i Democratici iscritti al gruppo dei Socialisti. Come gli ex governatori del Partito democratico Stefano Bonaccini e Nicola Zingaretti, che ricordano gli ottimi rapporti con il ministro soprattutto nella gestione dei fondi del Pnrr, che guarda caso saranno nel portafoglio di Raffaele. Addirittura Matteo Renzi ha preso le distanze dalle perplessità espresse dal presidente del gruppo Renew, la francese Valerie Hayer: «La nomina di Fitto non deve preoccupare. Fitto è un sincero democratico e un politico capace. Anche l’opposizione ha il dovere di difendere il commissario italiano».

Perfetto, ci sono tutte le condizioni per sentire le cannonate che verranno sparate contro il commissario italiano dalla Lega, da Matteo Salvini e dal generalissimo Roberto Vannacci dai banchi dell’Europarlamento. E l’imbarazzata difesa di Meloni quando si apriranno le danze dei dossier economici (Fitto se ne occuperà tanto e direttamente), quando si tratterà di mediare con gli occhiuti Paesi che controllano i conti italiani e con Bruxelles sulle nostre leggi di Bilancio, a cominciare da quella per il 2025.

Fitto non potrà fare gli interessi di Roma, del centrodestra italiano, nella gestione del piano settennale di rientro del deficit e del debito nostrano. Insomma, farà quello che ha fatto Paolo Gentiloni, con il quale è sempre andato d’amore e d’accordo, ma con un ruolo più incisivo.

Se in Italia Meloni ha scelto come ministri alcune persone non all’altezza (le cronache sono piene), per Bruxelles ha optato per il meglio che ha, di fatto un corpo estraneo a Fratelli d’Italia. Non a caso, l’altro giorno alla riunione dell’esecutivo di Fratelli d’Italia c’era mezzo governo e non Fitto, l’ex governatore pugliese che ai suoi tempi non disdegnava che amici salentini aiutassero Massimo D’Alema a essere eletto. Ne sa qualcosa il sottosegretario Alfredo Mantovano, che dalle trincee di Alleanza Nazionale combatteva questa pratica contro gli stessi alleati di Forza Italia. E infatti nelle elezioni politiche del 2001 nel collegio di Gallipoli, candidato per la Casa delle Libertà, viene sconfitto da D’Alema (riesce però a tornare in Parlamento grazie alla quota proporzionale della Circoscrizione Puglia). Erano tradizioni antiche che Raffaele ereditava dal padre, potente ras democristiano pugliese, ma i paradossali fili invisibili ed elastici della politica arrivano fino a oggi nelle mani di Meloni, che adesso dovrà dimostrare di accettare la sfida di Draghi.

Non ha altra scelta se non vuole boicottare il rilancio economico e militare dell’Europa. E deragliare verso lidi orbaniani e patriottici. Le premesse sono negative ma è il suo ulteriore banco di prova per essere riammessa sul fianco destro della maggioranza Ursula, come vuole il Ppe. Sapendo fin d’ora che potrebbe trovarsi anche lei, insieme a Salvini (storia già vista), a bombardare il quartier generale di Palazzo Berlaymont, dove Fitto avrà un quarto di appartamento privilegiato sulle grigie e piovose strade di Bruxelles.

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