I russi, i russi, gli americaniLa democrazia muore in pieno giorno, e noi qui mangiamo il gelato

Con i brogli nel paese caucasico e gli oligarchi negli Stati Uniti, Putin e Trump marciano spediti verso il fascismo del XXI secolo. Anziché preoccuparcene, preferiamo occuparci delle cicatrici di Sangiuliano e di altre miserie

AP/Lapresse

La democrazia muore in pieno giorno, su X, su Tiktok, sui podcast, altro che nelle tenebre, come dimostrano i brogli georgiani filmati nei seggi e circolati sui social di tutto il mondo.

Mentre gli scagnozzi di Incubo Georgiano menavano gli oppositori democratici ed europei della Georgia caucasica, riempivano le urne di schede pro regime e ribaltavano di dodici punti gli exit poll delle televisioni vicine all’opposizione, nell’altra Georgia, quella americana, un politico trumpiano chiedeva alla Commissione elettorale dello Stato di riunirsi quanto prima per assegnare i sedici Grandi elettori a Donald Trump già adesso, due settimane prima del voto presidenziale del 5 novembre. La Georgia di qua e la Georgia di là dell’Atlantico sono i simboli del jackpot che Vladimir Putin si appresta a incassare, e poi a far pagare a noi europei.

La Russia continua a interferire nei processi elettorali di mezzo mondo, a manipolare le opinioni pubbliche occidentali, compresa quella italiana, a uccidere e a terrorizzare i civili ucraini, a cancellare le identità culturali e linguistiche di Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kyrgyzstan, Tagikistan (Financial Times di ieri), e fin dove è possibile a vomitare i suoi consueti rigurgiti imperialisti, perché Mosca non rinuncia alle sue ex colonie per nessuna ragione al mondo, anzi dalla Cecenia alla Georgia, dall’Ucraina alla Moldavia fino a tutti gli Stan dell’Asia centrale scatena guerre, congela i conflitti, occupa i territori, corrompe i processi elettorali, manipola le opinioni pubbliche orientali e occidentali con l’obiettivo di mantenere vivo l’impero.

I russi adesso accolgono le truppe nordcoreane per provare a riconquistare i territori perduti nella débâcle ucraina, forniscono sistemi missilistici agli ayatollah iraniani, i quali finanziano il terrorismo mediorientale e ricambiano con i droni che uccidono gli ucraini, e poi organizzano summit internazionali radunando tutti i peggiori ceffi della Terra, vantandosi dell’inchino ossequioso di uno dei segretari generali più imbarazzanti della storia, già molto scabrosa, delle Nazioni Unite.

Questa è la cronaca parziale delle ultime 72 ore, senza dimenticare quanto successo a Washington, dove Jeff Bezos, proprietario del Washington Post, a undici giorni dal voto americano ha cestinato il tradizionale (e di per sé anche ininfluente) editoriale di sostegno a Kamala Harris per far riparare il giornale del Watergate dietro una vile neutralità, elaborata maldestramente per nascondere la reale intenzione di mettersi a disposizione di Donald Trump con una genuflessione che lo storico Timothy Snyder, nel suo libro “On Tyranny”, ha definito il primo atto di sottomissione possibile, ovvero quello di «obbedire in anticipo» alle richieste non ancora esplicitate del tiranno.

Il Washington Post è il quotidiano che si era schierato con Hillary Clinton e con Joe Biden nel 2016 e nel 2020 con la motivazione che Trump era un pericolo per la democrazia; è il quotidiano che nel 2016 ha orgogliosamente messo il motto “Democracy dies in Darkness” sotto la testata come segno di resistenza all’illiberalismo trumpiano. Eppure ora sceglie di non schierarsi né con Kamala né con Donald, nonostante dagli endorsement convinti e bellicosi del 2016 e del 2020 Trump non sia rinsavito affatto, anzi da quel momento ha provato a falsificare i risultati elettorali, ha organizzato un assalto violento e armato al Congresso, ha subito un secondo procedimento di impeachment al Congresso, è stato ritenuto responsabile di uno stupro, ha minacciato di usare l’esercito contro i «nemici interni», ha promesso di incarcerare gli oppositori politici, ha delirato di essere pronto ad abolire del tutto le tasse per tornare all’Ottocento e altre mille, ma davvero mille, fascisterie di ogni genere e grado.

«Trump fascista» non è il solito riflesso condizionato della sinistra liberal, che peraltro non ha mai usato l’argomento prima d’ora, ma è la definizione testuale che fanno di Trump i suoi principali ex collaboratori civili e militari, i famigerati guardavia che hanno fatto (male, ma l’hanno fatto) da barriera di sicurezza durante la sua Amministrazione, ma che al secondo eventuale giro di Trump alla Casa Bianca non ci saranno più a difendere l’America da un inesorabile sprofondamento nel fascismo del XXI secolo.

Ovviamente c’è stata la rivolta dei lettori e dei giornalisti del Washington Post, del suo ultimo favoloso direttore Marty Baron, dei leggendari Bob Woodward e Carl Bernestein, del sindacato interno, di tutti i commentatori, e anche le dimissioni del principe degli editorialisti del giornale, Robert Kagan, autore del nostro “Insurrezione” che spiega esattamente che cosa c’è dietro l’illiberalismo americano interpretato attualmente da Trump, ma anche dal suo vice JD Vance e da quel gruppo di oligarchi della Silicon Valley un po’ reazionari e un po’ hippie, come Elon Musk, Peter Thiel e ora, in modo se possibile ancora più codardo, anche Jeff Bezos.

La Russia imperialista e il fascismo di Trump sono insomma la prospettiva che ci troviamo davanti, con i poveri ucraini e i poveri georgiani nel ruolo di vittime sacrificali, anche se saranno soltanto l’antipasto di un nuovo ordine globale non più centrato sul Washington consensus, ma sull’equilibrio di potere tra autocrazie più o meno criminali.

Una società aperta, democratica e soprattutto viva si mobiliterebbe senza sosta contro questo pericolo immediato e urgente, tanto più che i nemici sono palesi e non nascondono le loro intenzioni. Quasi tutti i sodali di Putin sono anche amici di Trump, a cominciare dagli agenti del caos in Europa occidentale, dai burattini del Cremlino come Viktor Orbán fino al tiranno della Corea del Nord che manda carne da macello in Russia e fino a poco tempo fa scambiava lettere d’amore con Trump.

Certo, ci sono anche la Cina e l’Iran contro cui Trump fa spesso la voce grossa, ma davvero si vuole credere che l’imposizione di tariffe del «mille o duemila per cento» sulle merci cinesi, parole di Trump, siano una misura credibile e praticabile e non la solita fregnaccia buona per fanatici e picchiatelli del Maga? Semmai sembrano più minacciose le bordate trumpiane contro Taiwan, la Cina libera che Pechino aspetta che ci sia un presidente americano isolazionista per occupare militarmente, colpevole agli occhi di Trump di aver rubato all’America la produzione dei chip. Trump è un pericolo pubblico per gli americani, e soprattutto per i tradizionali alleati degli Stati Uniti che non potranno più contare sull’ombrello securitario gratuito offerto dagli americani.

Il dibattito pubblico italiano invece di affrontare questi temi che riguardano la nostra sicurezza, e di conseguenza le nostre pensioni, la nostra sanità, la nostra istruzione che saremo costretti a tagliare per difenderci, preferisce occuparsi d’altro, dell’eloquio di Alessandro Giuli, della cicatrice di Sangiuliano e di altre miserie da rapporti di polizia giudiziaria, ma del resto nello stato intellettualmente comatoso in cui si trovano i giornali, le televisioni e la classe dirigente non possiamo aspettarci altro, anzi forse è meglio augurarsi che continuino a non occuparsene perché altrimenti tirerebbero ancora di più la volata a Putin, a Trump e al ritorno a casa del fascismo. La democrazia sta morendo, e noi qui mangiamo il gelato. 

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