Nostalgia casara I voti ai formaggi del supermercato (parte seconda)

Continua l’analisi dei derivati del latte di matrice industriale più diffusi al supermercato. Da quello svizzero con i buchi ai formaggini per la pastina, uno sguardo ai prodotti della categoria più presenti, e forse acquistati, in Italia

Immagine generata con AI

Giusto il tempo di smaltire i latticini della prima parte dell’articolo e ci ritroviamo intorno a un tagliere pieno zeppo di formaggi – o presunti tali – prodotti dall’industria lattiero casearia per venderci quello che sembra più un servizio commestibile che l’illusione del casaro.

Infatti, nella comunicazione di buona parte dei formaggi fatti per la grande distribuzione non si parla spesso di paesaggi agricoli e fattorie con mucche che sono sempre pulite manco vivessero nel salotto del Quirinale, ma di panini farciti, tavole apparecchiate con famiglie sempre uguali e, addirittura, di snack. Il formaggio del supermercato, stando al racconto delle aziende stesse, non ha la presunzione di sostituirsi al caseificio locale, ma vuole facilitare la vita di tutti fornendo un’abbondante dose di grassi e proteine del latte con gusti standardizzati, ma comodamente porzionati e pronti all’uso.

Quella della standardizzazione è la peculiarità del formaggio industriale: sempre identico nel tempo e nello spazio, una certezza per quei consumatori che non vogliono ritrovarsi sorprese nel gusto. Un formaggio a pasta filata industriale, comprato al supermercato, sarà sempre uguale, che sia venduto ad Aosta o Messina. Un formaggio a pasta filata artigianale, comprato nelle stesse città, sarà sempre il risultato di quei territori che si portano dietro determinate razze di mucca da latte, tradizioni differenti, sviluppando così prodotti piuttosto diversi nel risultato finale.

La biodiversità di cui l’Italia è ricca, rispetto a molti altri luoghi d’Europa, è un aspetto che emerge nelle produzioni locali di prodotti lattiero caseari, dove la molteplicità di usi e culture delle province del Paese sono frutto di una diversificata esistenza di specie vegetali e animali, capaci di dare origine a formaggi diversi pur partendo dallo stesso ingrediente: il latte.

L’industria basa i suoi principi fondamentali su un altro piano, annullando la diversità, ma allargando la platea di potenziali consumatori, rendendo il prodotto sicuramente meno pregiato in termini di valori assoluti, ma più economico, ben distribuito e sicuro. Potremmo fermarci a lungo a discutere sul valore di uno e dell’altro sistema, ma alle risposte immediate sarebbe necessaria una lunga analisi dai risultati non scontati.

Stando ai numeri, elaborati da Ismea su dati NielsenIQ e presentati a ottobre 2024, i formaggi industriali pesano per il sette per cento sulla spesa dei prodotti lattiero caseari degli italiani, anticipati per quantità di consumo dai formaggi freschi e duri, che pesano ciascuno per il diciannove per cento, e un dieci per cento per i formaggi molli. Non è chiaro tuttavia cosa si intende, in questo report, per formaggi industriali, ma molti dei formaggi venduti confezionati al supermercato rientrano con molta probabilità in altre categorie.

In ogni caso, da un punto di vista sensoriale, quando parliamo di formaggi industriali ci riferiamo a prodotti assai carenti di profumi e note aromatiche complesse, ma ci confrontiamo con livelli base del gusto che oscillano tra il dolce e il sapido. Questo è dovuto a lavorazioni assai controllate del latte, sempre pastorizzato per garantire l’assenza di batteri patogeni e quindi appiattito nel sapore. Attenzione, non vale per tutti i formaggi che troviamo in un supermercato. Un Parmigiano Reggiano o un Asiago non sono da intendersi come prodotti industriali in quanto Dop e quindi rispettosi di un metodo che rappresenta il luogo e gli usi dal quale provengono.

Ma andiamo ai fatti e proseguiamo in questa nuova serie di pagelle dedicate ai formaggi tanto noti quanto anonimi.

Formaggio fuso a fette Tigre, la comodità ci manderà nel baratro: 2
Nei libri di storia dell’alimentazione andrebbe inserita la data del 1916, anno in cui il signor Kraft depositò il brevetto del formaggio fuso a fette (che diventerà Sottiletta per noi italiani, a metà secolo). Il formaggio fuso come categoria, che comprende anche i formaggini, era nato pochi anni prima e servirà un po’ di tempo prima che gli americani lo facciano diventare il prodotto derivato del latte più amato, piazzandolo su ogni hamburger.

Eccoci qui, nel punto più basso della gerarchia dei formaggi industriali, a parlare di formaggi impastati che danno vita a nuovi derivati che hanno lo scopo di sciogliersi in fretta per regalarci un’illusione al latte. Una sottiletta vi ha mai ricordato il gusto del formaggio? Ecco perché non ha senso di esistere nemmeno (anzi, soprattutto) dentro un toast.

Se le più famose in commercio sono le sottilette Kraft, noi abbiamo fatto i raffinati e siamo andati a cercare le sottilette svizzere, lì dove è nato il formaggio fuso, scegliendo la storica marca Tigre, prodotta da Emmi. Sia le sottilette Kraft che le fette Tigre sono prodotte a partire da una base che per metà è di formaggio Emmental, l’altra metà non si capisce benissimo. Nel caso di Tigre, una parte dell’Emmental è composta da un quindici per cento di Emmentaler Aop (la nostra Dop), poi nella lista ingredienti troviamo acqua, burro, sale di fusione (citrato di sodio), latte scremato in polvere, proteine del latte, sale, correttore di acidità (acido citrico).

Ma bisogna masticarla a nudo, senza pane, senza farla sciogliere, per rendersi conto che il senso della fetta di formaggio fuso, come prodotto alimentare, non esiste. E non esiste neanche una convenienza economica. Per lo stesso prezzo di un chilo di sottilette compreremmo un chilo del suo ingrediente principale, l’Emmental. In che momento esatto rinunciamo alla comodità di un prodotto porzionato per scegliere il prodotto migliore?

L’alternative all’industria: un qualsiasi formaggio che abbia un punto di fusione basso, come un buon formaggio svizzero e un cacio fresco, saranno sempre meglio di una sottiletta. A prescindere da caseificio, marca, zona di produzione.

Formaggini Crema Bel Paese, se questo è un formaggio: 4, solo con la pastina
Lo chef Giuseppe Iannotti (ristorante Krèsios a Telese Terme, Benevento) lo scorso anno aveva messo in carta la sua versione di pastina con il formaggino di latte di bufala. Di recente anche lo chef Cesare Battista del ristorante Ratanà di Milano ha inserito in menu una versione di pastina con il formaggino e, proprio in questi giorni, la creator Cucinare Stanca (Sofia Fabiani) ha preparato il piatto con il formaggino mentre parlava di Gpa e governo ladro raggiungendo 5,4 milioni di visualizzazioni. Pare di capire che la pastina con il formaggino sia una specie di comfort food che fa breccia nel cuore di ognuno di noi, ma com’è allora che il formaggino da solo lo vediamo con lo stesso sospetto con cui guardiamo ai coniugi di Erba? Mentre gli chef si sono preparati i formaggini in casa, con tutti i loro ingredienti pregiati, noi stiamo lì a cercare nello scaffale del latte Uht questi triangoli che non si capisce bene di cosa sono fatti. Vediamolo subito: formaggi (latte, sale, caglio), acqua, siero di latte in polvere e/o concentrato, burro (crema di latte e/o di siero di latte), proteine del latte, sali di fusione: polifosfati di sodio, citrato di sodio.

La lista di ingredienti ci parla di formaggi, al plurale. Si tratta quindi di una fusione di più formaggi, come per le sottilette (vedi sopra), lavorati con altri ingredienti che danno origine al formaggino. Un po’ processati, ma potevamo aspettarcelo. Il gusto del formaggino da solo o spalmato sul pane è una disgrazia per il palato. Non si spiega come fa a diventare poesia nella minestra, ma certi misteri della cucina forse è meglio lasciarli non svelati.

L’alternativa all’industria: farsi il formaggino a casa, magari seguendo la ricetta di Iannotti.

Bebybel, il mito dei bambini, la delusione degli adulti: 5
Più che un formaggio è descritto come uno spuntino al formaggio. Questo la dice lunga su quanto sia importante il servizio prima ancora del gusto. E così è per la minuscola forma dal guscio rosso che non ha dimensioni diverse da quella che abitualmente vediamo al supermercato. Gruppi di piccoli formaggi raccolti in una retina, prodotto dell’industria casearia francese, fatto con latte francese da mucche che, stando al sito ufficiale, pascolano libere per almeno 150 giorni l’anno e con una particolare attenzione al benessere degli animali da parte degli allevatori. Ci chiediamo se è veramente possibile fare cibo industriale con questa reale attenzione per gli animali o le terre di coltivazione.

Al latte si aggiungono sale, fermenti lattici e caglio vegetale. Privo di lattosio (anche se con tracce). Il risultato è un piccolo formaggio a pasta filata, racchiuso in un guscio di cera rosso che lo caratterizza moltissimo. Una volta scartato, un formaggio dal colore bianco e dal sapore più intesno di un Galbanino, ma meno buona di una scamorza. È davvero uno snack per bambini. Per noi che bambini non siamo più è uno snack deludente. Dateci un tocco di Parmigiano, piuttosto.

L’alternativa all’industria: di pezzatura ben più grande, ma di gusto assai più interessante seppur non sottoposta a stagionature importanti, la provola silana è una alternativa valida fatta in alcune zone della Calabria.

Camoscio d’Oro, la verità è altrove: 6-
L’affascinante aspetto vellutato dei formaggi francesi a crosta fiorita, come il Brie, il Camembert e tutti quei formaggi che sviluppano una muffa bianca in superficie, con le loro forme delicate, fa apparire questi prodotti perfetti da mettere sulle tavole ben apparecchiate. Sì, perché c’è gente che compone il tagliere dei formaggi scegliendo tra quelli carini, sperando siano anche buoni. Tra le forme intere e a spicchi di formaggi a pasta molle e crosta fiorita del supermercato, ce n’è uno che è assolutamente frutto dell’industria del formaggio al punto che non si classifica mai e si chiama solo con il suo nome commerciale: Camoscio d’Oro. Fatto con latte, panna, fermenti, sale e caglio è un formaggio senza lattosio e dalla crosta edibile (a conferma che certe muffe si possono mangiare).

Disponibile in una forma insolitamente ovale, al naso ha un profumo poco intenso e leggermente pungente. Il gusto è delicato, tipico di questa categoria di formaggi, ma privo di retrogusti marcati se non per un leggero ricordo di noci. Non è meno peggio di altri Brie da supermercato, ma non potete preferirlo senza prima aver mangiato un formaggio a crosta fiorita vero.

L’alternativa all’industria: cercante una rivendita di formaggi vicino casa e andate a chiedere un Brie a denominazione come quello di Melun o di Meaux. Fate presto prima che spariscano.

Auricchio Piccante, un provolone emigrato e troppo stagionato: 6
La storia del Provolone Auricchio inizia nel 1877 a San Giuseppe Vesuviano (Napoli), ma quando il business diventa grande decidono di spostare tutto al Nord Italia. Sia mai che una gioia possa restare al Sud. La Campania come tutto il Meridione ha una forte tradizione di formaggi a pasta filata tipo provole, Auricchio è sicuramente una delle forme industriali più note.

Testimonial storica nello spot che ha consacrato il formaggio negli anni Novanta, Ela Weber, all’epoca nota come la Sellerona (non c’è mai fine al peggio), ha rilanciato questo prodotto che oggi vive al banco frigo e nei banchi salumeria. Dolce o piccante, è fatto con latte italiano, sale e caglio. Naturalmente privo di lattosio, lo abbiamo assaggiato nella versione piccante, che si differenza dalla versione dolce per una più prolungata stagionatura che accentua i sapori e afferisce quel senso di piccantezza al formaggio, non dovuta a ingredienti aggiunti.

Nessuna indicazione sui tempi di stagionatura. All’assaggio il gusto è deciso, ma non particolarmente rotondo come un provolone fatto a partire da latte crudo. È il limite dei formaggi industriali che vanno verso stagionatura e non rimangono freschi.

L’alternativa all’industria: totalmente il Provolone del Monaco di uno dei caseifici più antichi della Campania, Caseificio De Gennaro di Vico Equense (Napoli).

Galbanino, il più gender fluid dei formaggi industriali: 6½
Insieme al Philadelphia, il Galbanino è forse all’apice della piramide dei formaggi industriali. Ricercato nei volantini degli sconti da tutti i responsabili della spesa domestica, è il derivato del latte che invecchia bene perché, più di tutti, ha saputo dimostrarsi fluido nel suo saper stare dentro un panino al prosciutto, nella teglia di pasta al forno e persino mangiato a morsi come fosse caciocavallo silano. Pare sia una presenza costante nei frigo del Sud Italia, specialmente in Sicilia (così dice Assolatte). Questo tubo rivestito di una crosta in cera non edibile (da smaltire nell’indifferenziata, anche se non indicato in etichetta), che serve a mantenerlo in quanto prodotto senza conservanti, è un’invenzione di Galbani, nato come caseificio nel 1882 e diventata industria lattiero casearia nel tempo, dopo la prima e importante produzione che la rese famosa: il formaggio Bel Paese. Negli anni Cinquanta viene prodotto Galbanino che diventerà famoso con gli spot tv degli anni Novanta e una martellante versione di “Come te non c’è nessuno” di Rita Pavone.

Galbanino è fatto con latte di provenienza italiana, sale e caglio. Viene definito un formaggio a pasta filata. In questa categoria rientrano moltissimi formaggi come caciocavalli, provole, scamorze e latticini come la mozzarella. Pasta filata perché, durante la lavorazione, i grumi della cagliata lavorati con acqua calda vengono filati, diventando quella pasta compatta che poi darà forma al prodotto. All’assaggio si sentono immense note dolci di latte, la consistenza è morbida ed elastica e, se scaldato, il formaggio diventa filante ben più di una provola, quanto basta per generare un discreto piacere.

Non ce la sentiamo di demonizzare questo formaggio che conserva assai più dignità di altri prodotti (vedi pizza cheese, santo cielo!). Certo, evitate di viverlo come l’unico formaggio possibile per non appiattire il gusto e guardatevi da gettarne a dadi in qualsiasi piatto state cucinando.

L’alternativa all’industria: ricercate una delle provole tipiche della tradizione del Meridione. Ad esempio, la Provola dei Nebrodi, una Dop siciliana prodotta in alcuni dei comuni dei monti Nebrodi a partire da latte di bovine alimentate, per almeno il sessanta per cento, con foraggi presenti nel territorio di produzione.

Leerdammer, i buchi più sponsorizzati del mondo: 7
Entriamo nello sterminato territorio di quei formaggi simbolo stesso della categoria. Il formaggio di Tom & Jerry e delle emoji: quello con i buchi. Un tipo di prodotto che associamo alla Svizzera, luogo di origine del formaggio con i buchi più famoso: l’Emmentaler Dop. Quando parliamo di Emmental (o Emmenthal) ci riferiamo più genericamente ai formaggi a pasta dura o semidura prodotti a partire dal latte di mucca tipici di Svizzera, Francia e Germania. In ciascuno di questi Paesi l’Emmental è un formaggio tutelato dal marchio europeo di denominazione di origine protetta. L’industria lattiero casearia del resto d’Europa e degli Stati Uniti hanno poi dato origine a una produzione massiva di questi formaggi, molto amati in tutto il mondo per il loro sapore dolce.

Tra queste tipologie di formaggio presenti al supermercato, Leerdammer è quello che si prende più spazio con vari formati per ogni tipo di consumo. Di origine olandese, Leerdammer presenta un packaging che sa attirare l’attenzione con i suoi colori e un’etichetta che parla di latte «cento per cento olandese, proveniente da mucche che pascolano per almeno sei ore al giorno per un minimo di 120 giorni l’anno quando il clima è ideale». A trovarne di formaggi industriali così specifici nel raccontarti la vita delle vacche.

Gli ingredienti sono latte pastorizzato, sale, fermenti lattici, caglio microbico. È raro imbattersi in un’etichetta il cui caglio è di natura vegetale attraverso coltura di muffe e non derivante dallo stomaco dei vitelli. Inoltre, è naturalmente privo di lattosio. All’assaggio è il tipico formaggio con i buchi, dal profumo piuttosto persistente con sentori aciduli ma un gusto dolce. Al palato è un morso morbido. Difficile da paragonare a un buon Emmentaler, ma meno peggio di certi formaggi industriali fatti in Italia. Forse un po’ eccessivo il marketing che ne ha creato formati per ogni uso: dai cubetti alle fette.

L’alternativa all’industria: le Dop di alcuni Paesi Europei come l’Emmentaler, il tedesco Allgäuer Emmentaler o le Igp (Indicazione Geografica Protetta) francesi come Emmental Français Est-Central e l’Emmental di Savoia.

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