Certo, fossi Shakespeare direi che non vengo a elogiare Cecilia Sala, vengo a seppellirla; ma, poiché non solo non sono Shakespeare, ma il pubblico semicolto di questo secolo è pure assai meno attrezzato a decodificare le antifrasi di quanto lo fosse il pubblico teatrale senza scuole dell’obbligo del diciassettesimo secolo, proverò a cominciare così: ma chi se ne frega di Cecilia Sala.
Sì, lo so che quelli che si sono indignati per il tweet (o come si chiamano ora) di Cecilia Sala sulla ragazza iraniana sono un sottinsieme quasi perfettamente sovrapponibile a quello dei lettori di questo giornale, lo so che anche oggi mi faccio ben volere, lo so che si formeranno due file ordinate: da una parte quelli che mi dicono che sto con gli ayatollah (ma certo), e dall’altra la fila di chi dice «vi difendete tra di voi, conventicole».
Trovo questa seconda fila molto più offensiva rispetto all’idea, quasi altrettanto plausibile, che mi piacciano le teocrazie. Sono disposta a sopportare quasi ogni tipo di intento diffamatorio, ma non l’illazione ch’io sia amica di una più giovane, più figa, e che probabilmente guadagna più di me. E infatti sono qui a dirvi che Cecilia Sala ha torto, e non nell’accezione antifrastica dell’orazione funebre del “Giulio Cesare”, no: proprio torto secco, letterale, marcio.
Brevi cenni dai social. Ieri Nigella Lawson – anche lei più figa e più ricca di me, ma almeno più vecchia – ha postato su Instagram il link a un pezzo che aveva scritto per il Times. Poiché Instagram ha capito meglio di altri che chi spollicia lo schermo del telefono certo non vuole leggere, su quella piattaforma non puoi linkare un articolo dentro a un post. Quindi ha spiegato per venti righe cosa significasse «link in bio», dovete schiacciare questo poi quest’altro poi vi compariranno delle fotine.
Sembrava, Nigella, l’adulto medio che cerca d’insegnare ai genitori novantenni a usare il computer. Offri un articolo gratuito ai follower, ed è come se recapitassi una fiorentina a un vegano: non solo è inutile, ma gli fa pure un po’ schifo, e comunque a casa non ha coltelli seghettati. Ogni volta che vedo i giornali mettere articoli sui social, articoli utili solo a far commentare «ma non vi vergognate» e altre sofisticatezze intellettuali a gente che quei giornali non li pagherà mai ma neppure li leggerà gratis, penso che sulla Treccani, alla voce “zitella disperata”, dovrebbe esserci il sinonimo “giornale sui social”.
Ma continuiamo coi brevi cenni. Di recente Omissis, giornalista milanese quarantacinquenne che quest’anno è andato per la prima volta negli Stati Uniti, si è messo a pontificare sulle elezioni americane, delle quali non sa ovviamente niente, dopo aver sbocconcellato giornali in una lingua che non parla. A un certo punto, per dire che gli Stati del sud non sarebbero stati sensibili al tema aborto, ha scritto che Kamala avrebbe perso «in Sudamerica». In Cile. In Venezuela.
Omissis ha più di settecentomila follower, e fatta la tara dei quattro stronzi che come me lo seguono per sghignazzare, lì dentro c’è un pubblico che è quello dei social, cioè il paese reale nella sua essenza più pigra e meno istruita, la versione anabolizzata del pubblico televisivo che Neil Postman descriveva quarant’anni fa, che non sa niente e si annoia subito.
A Omissis scrivono che meno male che l’America gliela spiega lui, e gli chiedono che adattatori per le prese si debbano portare nella loro imminente vacanza americana. Perché metterti in tasca un attrezzo con tutte le informazioni del mondo significa farti passar la voglia di migliorarti, e farti diventare uno che chiede a chi non era mai stato in un posto fino a tre quarti d’ora prima che prese si usino in quel posto. Perché Google ti darebbe sì un’informazione meno inesatta, ma non la scarica di dopamina che ti dà Omissis, famosetto, rispondendo al tuo messaggio.
Ancora. Piers Morgan ha postato il messaggio con cui Instagram gli comunica d’aver rimosso il post in cui si congratulava con Trump dicendogli che aveva vinto nonostante dicessero che era come Hitler. L’hanno preso per apologia nazista. M’è tornato in mente quando, qualche settimana fa, ho condiviso il post con cui Linkiesta spacciava ai non lettori dei social il mio articolo intitolato “La frociaggine è finita quando anche i busoni hanno iniziato a piazzare i congiunti”. L’algoritmo mi ha rimosso la storia dicendomi che incitavo alla qualcosafobia, ma il post originale del giornale è ancora lì. Direi che l’algoritmo è scemo, ma ricordo quando un giudice mi condannò a dare cinquantamila euro a un tizio per aver letto in radio alcune righe d’un libro in cui si parlava di lui, libro al cui autore non aveva fatto causa. L’algoritmo è scemo come gli umani scemi, d’altra parte lo programmiamo noi e ce ne cibiamo noi.
Qualche mese fa, a una cena, una persona che lavorava con Michela Murgia ha detto una frase che si sente dire spesso rispetto alla Murgia: usava Instagram come Pasolini usava gli editoriali del Corriere. Io in genere a quel punto cambio discorso, perché è un’affermazione che m’imbarazza in mille modi diversi, dall’utilizzo di Pasolini come esempio virtuoso alla finzione di considerare Michela Murgia un’intellettuale rilevante per gli intellettuali.
Quella sera però ho fatto un’obiezione. Ho chiesto se portare la propria opera d’ingegno su un mezzo il cui fine è la semplificazione, l’instupidimento, il consenso facile, se sceglierlo come mezzo d’elezione non significasse rinunciare a qualunque complessità: condannarsi a non dire mai una cosa che non fosse quella che la massa vuole sentirsi dire, e a fare di sé una influencer che invece che rossetti vende parole. Ha rapidamente cambiato discorso qualcun altro, e non ne abbiamo mai più parlato.
Il problema sono i mezzi, mica Cecilia Sala, della quale chi se ne frega ma che mi ha fatto tornare in mente quella cena quando, cinque giorni fa, ha avuto l’ardire di rompere il giocattolo del momento, ovvero il video della ragazza iraniana in mutande – secondo la versione dei fatti con cui prendevamo i cuoricini, in mutande lucidamente come protesta contro l’obbligo di hijab – ipotizzando che le cose potessero non stare come le raccontavamo. Ricopio stralci di ciò che ha scritto Sala non in un editoriale ma su un social, essendo così sciocca da credere che fosse opportuno scrivere cose simili su un social.
«Non ho ancora avuto modo di verificare questa notizia ma ho provato a farlo: ho chiesto ad amiche giornaliste iraniane e anche loro non hanno ancora chiaro cosa sia successo di preciso. Ci sono testimonianze contrastanti. Ho usato il condizionale. Visto che queste immagini sono già diventate un simbolo in tutto il mondo, e visto che è già successo una volta che una storia famosa si sia rivelata falsa (mentre ce ne sono molte altrettanto gravi e vere), è meglio prendersi qualche ora in più prima di rendere un simbolo una storia non ancora chiara». Ora, io mi chiedo: Cecilia Sala, ma sei scema?
Ma ti sembra che in posti in cui la gente si conta i like e i follower e in base a quelli decide se è il caso di farsi venire il delirio di onnipotenza o sentirsi un fallito, cercare uno sponsor o tornare a casa e picchiare i figli, ti pare che in distributori di dopamina che solo Elon Musk (che è abbastanza ricco da potersi permettere d’essere spostato) può scambiare per fonti d’informazione, ti pare che in questi zoo di vetro si possa invitare a verificare le notizie, a non innamorarsi dei simboli, a rendersi conto che comunque, che sia matta o lucida, la ragazza vive una vita di merda nel posto peggiore in cui a una donna possa toccare di nascere, e se non fosse in mutande noi magari non ce ne ricorderemmo ma lei e tutte le altre vivrebbero comunque in una teocrazia, e se noi non prendiamo i like su di lei così come sulle invettive contro l’iva sugli assorbenti – che nel Grande Indifferenziato rappresenta lo stesso ordine di problemi – lei vive comunque una vita di merda, la vive finché non decidono di ammazzarla (il che è probabile accada più in fretta se il pasciuto occidente in smania da dopamina decide di farne un simbolo)?
Cecilia Sala, perché parli a quella terza elementare in picco glicemico che è un social network come fosse un ritrovo di adulti razionali? Cecilia Sala, possibile che debba spiegarti io, io vegliarda, a te praticamente nativa digitale, la differenza tra l’informazione e i social, tra la cultura e i social, tra il più cieco amore e la più stupida pazienza?
Cose per cui si possono usare i social. Tagliarsi le doppie punte in un reel, in solidarietà a quelle che se si mettono la telecamera del telefono davanti alla faccia le decapitano – e loro neppure prendono i cuori, a differenza nostra. Promettere i propri nudi in bio (i nudi, non gli articoli: degli articoli non gliene frega niente a nessuno). Dire «vergogna» a chi dice una cosa diversa da quella per cui si prendono cuoricini quel giorno.
Altre cose per cui vanno bene i social. Ripostare divertendosi moltissimo «They’re eating the dogs, they’re eating the cats» (e poi trasecolare se quello vince le elezioni). Annunciare che basta, ora che Musk ha appoggiato Trump io da qui me ne vado, e comunicare che l’affezionato pubblico può trovarci su altro social di altro miliardario che fa ovviamente i propri interessi di miliardario e che al prossimo giro riterremo il male assoluto ma per ora è un buon placebo per non farci stare a telefono spento a studiare.
Ulteriori cose per cui è opportuno usare i social. Fotografare la notifica che qualcuno ti ha bloccato e condividerla con follower che la prenderanno sempre per una certificazione di scomodità intellettuale e mai di petulanza. Utilizzare il gergo bellico per le puttanate: «Io combatto perché tutti i giornalisti siano laureati», ha scritto alcune decine di volte una giornalista vagamente ossessionata dai titoli di studio della Sala, una come Edmondo Berselli incapace di concepire una guerra ma meno dotata di senso del ridicolo.
Infine, sempre, è cosa buona e giusta la mattina aprire i social e subito individuare un nemico, perché ogni giorno in cui ce la prendiamo con qualcuno è un giorno in cui ci collochiamo dalla parte indolore del linciaggio, e non rischiamo di essere noi quelli che vengon linciati. E ora scusate, vado a far ritoccare i miei nudi: vorrei che in bio fossero donanti.