«’Sto fatto che tu e io non si polemizzi più, e anzi io ti cosparga gli articoli di like, mi ricorda la mia sopraggiunta senilità più della fatica di raccogliere una scarpa sotto al letto». Me l’ha scritto qualche mattina fa un signore che mi è simpatico, e me l’ha scritto perché quella mattina avevo, cercando altro, trovato un reperto di dieci anni fa.
Uno dei problemi dell’indifferenziato di internet, in cui sconosciuti ritengono d’intervenire in conversazioni di sconosciuti, è la mancanza di familiarità coi codici altrui. È un problema che prima si presentava solo con le intercettazioni: un maresciallo trascriveva quel che ci dicevamo io e Tizio e, non conoscendo il nostro lessico famigliare o i nostri toni, prendeva tutto alla lettera.
Adesso, che molte conversazioni avvengono in pubblico, ogni minuto c’è un equivoco. Ma voi siete in pubblico, dice l’inattrezzato, io ho diritto d’intervenire (l’inattrezzato fa un uso particolarmente ubriaco della categoria del diritto). Certo che ce l’hai, e io ho il piacere di dirti che sei intervenuto senza capire il contesto, i codici, e cosa davvero ci stessimo dicendo.
C’è una frase che con amici ci diciamo tantissimo in privato, e quella frase è: ma ti ricordi di quando usavamo i social? Se la dicessimo in pubblico, ci sarebbe subito qualche Brocco81 che corre a rinfacciarci che li stiamo usando anche in quel momento, è inutile che ci atteggiamo, dite sempre che l’internet fa schifo e sempre qui state. Sarebbe difficilissimo spiegare a lui o a Vongola75 cosa intendiamo, eppure noi lo sappiamo senza essercelo mai spiegato, tra di noi.
Intendiamo: ti ricordi quando i social non li usavamo solo per dire a Brocco81 che è un coglione? Ti ricordi quando li usavamo per commentare la tv, per dire la nostra sul fattarello del giorno, per regalare le nostre opinioni al mondo? Ti ricordi quando ci perdevamo del tempo che non fosse quello in attesa degli imbarchi in aeroporto, o dell’acqua per la pasta che bolle? Ti ricordi quando eravamo imbecilli? (Quanto si stava meglio quand’eravate tutti imbecilli, diceva il personaggio di Vittorio Gassman in un vecchio film).
Qualche mattina fa, dunque, cerco non so cosa tra vecchie mail, e trovo altro, altro di cui non avevo alcun ricordo ma che mi sembra illuminante. È un pdf, l’avevo mandato a un’amica a gennaio del 2015. Avevo salvato a futura memoria quindici pagine di commenti Facebook. La discussione, svoltasi tra il 29 dicembre 2014 e il capodanno 2015, sotto al post d’uno sceneggiatore.
Che, porello, aveva scritto una cosa anche abbastanza spiritosa sulla vecchia che, alle proiezioni in presenza degli autori, dorme per tutto il film e poi, quando iniziano le domande, si risveglia per chiedere conto dei finanziamenti pubblici. Lo sceneggiatore lo conoscevo già, quell’anno. Altri partecipanti alla discussione no, ma in mezzo c’era gente con cui poi avrei lavorato, o fatto amicizia, o avuto abbastanza confidenza da avere l’uno il numero di telefono dell’altra e io dire «devi leggere questa roba di dieci anni fa», e loro rispondere con la fatica della scarpa sotto al letto.
Giacché dieci anni sono un’eternità, cambia quasi tutto, pure le ragioni per cui ti sta antipatica o simpatica la gente, pure il conoscere o non conoscere qualcuno, pure il fatto di usare o non usare i social, e mettercisi a dire o a non dire qualcosa. Una sola cosa non cambia, codificata da Aaron Sorkin nel litigio tra Mark Zuckerberg e l’ex fidanzata nel più importante film di questo secolo, “The social network”: l’internet non è scritta a matita, Mark.
Dieci anni fa, dunque, era fine dicembre, uno sceneggiatore racconta un nanetto, e io acida come la pioggia di “Blade runner” gli dico che se la vecchia dorme col suo film è perché lui fa errori d’ortografia (c’era un apostrofo di troppo nel suo raccontino: oggi gli manderei un messaggio privato per farglielo notare, visto che lo conosco, ma evidentemente il 2014 era ancora l’epoca in cui usavamo i social).
Seguono decine di interventi di gente più o meno del settore che parla di cinema, di finanziamenti, di ministeri, di università, di stronzaggine, di un po’ quel che le passa per la testa. C’è anche un commento che contiene la frase «Le commissioni elette dalla politica per valutare i film – che di fatto, oltre che approvare o meno un progetto economico, definiscono anche un “gusto” dietro l’orripilante nozione di “interesse culturale” – è una roba che nun se po’ vede’». Non farebbe particolarmente ridere se non fosse che il tizio che lo lascia sarà, un po’ di anni dopo, nella commissione che nega i finanziamenti pubblici al film della Cortellesi.
Poi, a un certo punto, interviene un altro tizio, uno di cui non serve dire granché. All’epoca lavorava per “Le iene”, poi è stato deputato per i Cinque stelle. Interviene per stigmatizzare il mio commento sul mancato apostrofo. Non serve aver vinto il premio Hitchens per la retorica per sapere che, per mettere in imbarazzo una che ha lasciato un commento inutilmente aggressivo, si debba essere gentilissimi. Lui fa una scelta diversa. Vi ricopio quasi interamente il commento, senza intervenire su punteggiatura o anacoluti o logorrea, perché non è che la “Divina commedia” si possa leggere parafrasata.
«È un po’ come se una donna inguardabile, per di più compiaciutamente cattiva, e sola, sola e triste come solo quelli nati brutti sanno essere soli e tristi, e per questo avvelenata col mondo (venditori di psicofarmaci, vi va sempre di culo, a voi!), scrivesse di bellezza, stile, estetica, e così via, senza risparmiare al mondo nemmeno battute acide verso i figli di un giornalista coraggioso che è stato ucciso in guerra, lei che al massimo ha lottato contro la bilancia e la solitudine, che alla fine però vincevano sempre loro, e vai di Martini per tentare di dimenticare. È come se quella stessa bruttona velenosetta, desse lezioni oggi su chi merita i contributi statali e chi no, dopo essersi fatta un nome su un giornalucolo squallido, che non ha mai venduto mezza copia e sarebbe fallito da un secolo se non ci fossero stati i contributi statali a tenerlo in vita, e non i lettori (che non c’erano quando ci scriveva quella persona brutta e acida, e non ci sono nemmeno adesso), giacché la vecchia dei film è annoiata per colpa tua, ma i lettori che non hanno mai comperato certe fetecchie sono ignorantoni che non capiscono».
Poteva lavorare per qualunque programma, per qualunque partito, e invece tu pensa a volte le coincidenze. In dieci anni cambia tutto ma non cambia, naturalmente, la natura delle persone. Siamo tutti rimasti quel che eravamo, chi fonte d’imbarazzo per tutti e chi al massimo in giornata storta, chi intento a diagnosticare infelicità agli altri con meccanismo proiettivo, e chi capace di bisticciare con un po’ di grazia.
Com’è ovvio, più avanti nella discussione arrivano quelli che gl’ingiungono di chiedere scusa, e lui si mette a spiegare che no, che lui non insulta mai nessuno ma io lo merito, sono brutta e cattiva. Erano le undici e mezza della sera del 31 dicembre ed erano ancora lì che baccagliavano: te lo ricordi quando usavamo i social perché non avevamo un invito per capodanno? (Per inciso sono, oggi come allora, contraria alle scuse, allorché qualcuno è stato esattamente ciò che è: di che deve scusarsi, tapino, di esistere? Di essere sé stesso sestessamente? Di non avere strumenti dialettici non da terza elementare? Sarà semmai la vita che deve scusarsi con lui).
Insomma è tutto meraviglioso, e mi è tornato in mente vedendo un’intervista di Marc Jacobs al Wall Street Journal. Anche Marc Jacobs è un buon esempio di come tutto cambi in dieci anni, dieci anni fa non si tornava da New York senza qualche maglietta di Marc by Marc comprata sulla Bleecker, e adesso quel negozio e quella linea non esistono più e, se non sapessimo tutte quant’è stato importante Marc Jacobs quand’avevamo trent’anni, penseremmo che è solo un pirla che si fa i video su Instagram con le unghie lunghe.
Il WSJ gli chiede di Anna Wintour e Marc risponde che, nel periodo in cui aveva problemi di droga, lei lo portò a pranzo e gli disse «ma perché non impari a giocare a tennis?», e io la trovo un’istantanea che spiega il mondo più di molti trattati di sociologia. MJ ha sessantun anni, e quindi sospira «magari fosse così semplice, sostituisci il tennis alla droga»: se ne avesse ventuno, strillerebbe che la Wintour ha invalidato il suo vissuto e altri deliri da neolingua e da bisogno smanioso d’identificarsi coi propri limiti.
Anna Wintour ne compie settantacinque domani, ha vissuto abbastanza da sapere che tutto è scritto a penna, che puoi diventare solo quel che sei, che chi incontri salendo le scale lo reincontrerai scendendo, e che non c’è nulla che non dipenda dalle tue decisioni: essere felice, essere infelice; essere gentile, essere cafone; essere uno che si strafà, essere una che ogni mattina si sveglia alle quattro per giocare a tennis prima d’andare in redazione; essere abbastanza memorabile da, quando ti vedo con le unghie da scemo, dire «sì, però quel vestito azzurro era un capolavoro», o abbastanza dimenticabile da, quando ritrovo una tua invettiva, sospirare con tenerezza: te lo ricordi quando usavamo i social?