Esistono tre Cop. La Cop sul cambiamento climatico, quella sulla biodiversità e quella sulla desertificazione. Tre conferenze delle Nazioni unite per cercare di risolvere la crisi ambientale causata delle attività umane. Nell’anno record per numero di elezioni e temperature registrate – il 2024 è stato più caldo di oltre 1,5 gradi rispetto alla media dell’era pre-industriale – si sono svolti tutti e tre i vertici Onu. L’ultimo, in ordine di tempo e di attenzione mediatica, è stato quello sulla desertificazione organizzato a Riyad, in Arabia Saudita, dal 2 al 14 dicembre.
I negoziati hanno riunito le parti firmatarie della Convenzione Onu sulla desertificazione (Unccd, United nations convention to combat desertification): centonovantasei Paesi più l’Unione europea. Osservata speciale di questa sedicesima Cop è stata la siccità, resa sempre più frequente e intensa dal riscaldamento globale e tra le cause principali della desertificazione.
La questione più controversa sul tavolo delle trattative ha riguardato l’adozione di un protocollo vincolante sulla siccità: «Un accordo che avrebbe imposto ai governi obblighi in termini di policy e risorse economiche per il contrasto agli eventi siccitosi», ha spiegato a Linkiesta Anna Luise, delegata italiana a Riyad e presidente di uno dei più importanti organi di lavoro di Cop16. Da una parte i favorevoli: i Paesi africani appoggiati dal gruppo delle Nazioni meno sviluppate e più vulnerabili alla crisi ambientale. Dall’altra, il Nord globale schierato per un’intesa non vincolante.
«C’è stata una forte contrapposizione tra gli Stati occidentali e quelli africani, tanto che sono stati creati dei gruppi di discussione informali per cercare di avvicinare le posizioni», continua Luise. Non è bastato: trattative rimandate in Mongolia alla Cop17 del 2026. «Le parti hanno bisogno di più tempo per concordare la migliore via da seguire», ha detto alla fine della conferenza Ibrahim Thiaw, segretario esecutivo dell’Unccd.
A dare speranza al segretario, come lui stesso ha dichiarato, è stato l’impegno preso alla Cop16 a mobilitare 12,5 miliardi di dollari nell’intesa chiamata “Partenariato globale per la resilienza alla siccità”. Soldi promessi in gran parte dall’Arabia Saudita e dalle altre Nazioni del Golfo. Un risultato comunque minimo, se confrontato alle perdite economiche causate dalla siccità e alla spesa per il ripristino dei terreni degradati.
A fornire i termini di paragone è un recente rapporto Onu: i dollari persi annualmente per via degli eventi siccitosi sono trecento miliardi; gli investimenti necessari entro il 2030 per recuperare i suoli ormai aridi ammontano a 2,7 mila miliardi. E come sottolinea la stessa analisi delle Nazioni unite, i terreni attualmente degradati coprono il quaranta per cento della superficie terrestre, escludendo l’Antartide.
I Paesi più colpiti dalla tendenza all’inaridimento non sono solo quelli africani, ma anche gli Stati europei, in particolare quelli del Mediterraneo. In Italia a contribuire alla desertificazione – che come spiega Luise, va intesa come la perdita di produttività agricola e biologica dei suoli – non è solo la siccità causata dalle emissioni di gas serra (si veda quella in Sicilia e Sardegna), ma anche il consumo di suolo. Nell’ultimo anno, il territorio italiano ha perso 2,3 metri quadrati di suolo al secondo. Per ora, la risposta del governo italiano arrivata alla Cop16 è un contributo da undici milioni di euro per finanziare alcune attività di contrasto alla desertificazione nel Sahel.
Conservare la produttività dei suoli ha a che fare soprattutto con i nostri interessi biologici. L’uso insostenibile del terreno ha un impatto sulla maggior parte dei parametri che secondo gli scienziati è indispensabile mantenere entro certi limiti per il benessere della specie umana. Come riportato in un recente studio del Potsdam institute for climate impact research, sette su nove di questi confini sono negativamente influenzati dalla desertificazione. Tra questi: la soglia che riguarda la concentrazione della CO2 e quella che riguarda l’integrità della biosfera. Il cambiamento climatico è influenzato in modo significativo dall’avanzare del deserto perché foreste, pascoli e terreni sani assorbono e immagazzinano il carbonio atmosferico.
Sono in molti, però, a non volersi accorgere dell’interconnessione tra clima, suolo e biodiversità. In primis l’Arabia Saudita, Paese produttore di petrolio e per questo grande oppositore dei negoziati sull’abbandono dei combustibili fossili e sulla riduzione dell’uso di plastica (prodotto della stessa industria dell’oil and gas). Nel frattempo, lo Stato arabo ripulisce la propria immagine organizzando prima la Cop sulla desertificazione e poi i Mondiali di calcio maschile del 2034.