«Felice anno nuovo», dice Babbo Natale mentre a bordo della sua slitta sorvola i cieli della Russia per consegnare i regali, che in realtà sono missili con il simbolo Nato in bella vista. Ma non c’è tempo neanche per terminare la frase: un drone scagliato da Ded Moroz, il famoso “Nonno Gelo” (l’equivalente di Santa Claus nella tradizione russa), lo centra in pieno facendo andare la slitta in mille pezzi. «Bersaglio centrato», dice un militare in sala di comando. «Non abbiamo bisogno di niente di straniero nei nostri cieli», ribatte Nonno Gelo, per poi voltarsi verso il militare e augurargli a sua volta un buon 2025.
Un breve spot, poco più di venti secondi: l’ultima trovata della propaganda russa che suona – o meglio, tuona – come il più classico dei “buoni propositi” per l’anno nuovo viaggia veloce attraverso i social media, canale privilegiato per diffondere una disinformazione creata ad arte per veicolare messaggi che attaccano l’Occidente strumentalizzandone perfino i simboli del Natale, proprio come il paffuto signore dal vestito rosso e dall’inconfondibile barbone bianco. Per non parlare del richiamo, neppure tanto velato, al disastro aereo di Aktau, in Kazakistan, dove trentotto persone nello schianto causato, secondo le prime indagini, dall’impatto proprio con un missile russo: da Vladimir Putin sono arrivate finte scuse per il «tragico incidente», senza però nessuna assunzione di responsabilità.
Nella fattispecie, il video in questione è stato pubblicato su Telegram, la piattaforma principale destinata non soltanto alla comunicazione propagandistica, ma perfino a quella istituzionale. A fine agosto l’arresto del ceo Pavel Durov aprì uno squarcio sul social, accusato di essere una sorta di zona franca virtuale per la diffusione di materiali pedopornografici, il traffico di stupefacenti e persino l’organizzazione di bande criminali. E mentre la piattaforma si difende dicendo di essere uno strumento che tutela la libertà d’espressione e le norme europee come il Digital Services Act, a partire dall’invasione su larga scala dell’Ucraina Telegram è diventato il mezzo più utilizzato dai media filogovernativi russi e persino dalle forze armate, al punto che quando si è sparsa la notizia di Durov un canale di blogger militari russi ha dichiarato che «hanno arrestato il capo della comunicazione dell’esercito». Naturalmente sullo stesso social.
In un continuo rimpallo di messaggi sulle chat istituzionali, le autorità russe hanno ordinato prima ai funzionari e alle forze dell’ordine di cancellare le conversazioni su Telegram, invitando poi i comuni cittadini a fare lo stesso nei riguardi di dati particolarmente “sensibili”. In un’intervista rilasciata a Politico il numero uno del gruppo investigativo Kremlingram, Nazar Tokar, ha dichiarato che «i russi fanno tutto tramite Telegram», sottolineando come al social in questione non sia toccato in sorte lo stesso trattamento che il Cremlino ha riservato a gran parte delle altre piattaforme di comunicazione e messaggistica online compresa Vkontakte, la rete più famosa e più diffusa in tutta la Russia.
Avvolgendo il nastro fino agli ultimi giorni del 2024, Mosca ha messo al bando gran parte dei social media, per contrastare il timore “frodi telefoniche” che, secondo i dati dell’operatore MegaFon, in tre anni sono passate dall’uno al quaranta per cento: l’ultima direttiva emanata proprio a ridosso del Natale rimuove la trasmissione di dati vocali dall’elenco delle licenze per i servizi di comunicazione online. Niente più chiamate tramite app di messaggistica istantanea, questa la decisione del ministero dello Sviluppo digitale russo e del Roskomnadzor, l’ente regolatore federale delle comunicazioni e dei media.
Tra i regali sotto l’albero c’è anche il rumor, confermato dai media russi, di un possibile ban a WhatsApp, accusato di essere uno strumento per i gruppi estremisti e dunque inserito nell’elenco dei servizi di comunicazione con l’obbligo di memorizzare i dati degli utenti su server locali per poi trasmetterli alle agenzie di sicurezza statale. Una richiesta, questa, che si conforma alle regole stringenti messe in campo contro le piattaforme digitali da parte del Cremlino, che già nel 2022 aveva ufficialmente bandito Instagram e Facebook, lasciando per il momento proprio WhatsApp l’unico servizio del gruppo Meta attualmente operativo in Russia.
Ma la lista dei media finiti nel vortice della repressione è ancora lunga. A inizio dicembre è stata la volta dell’app Viber, il cui uso è stato limitato a causa di presunte violazioni proprio delle norme sulla distribuzione delle informazioni e dei dati: una misura necessaria a impedire «scopi terroristici ed estremisti, il reclutamento di cittadini, il traffico di droga e la proliferazione di contenuti illegali», secondo quanto dichiarato – ovviamente su Telegram – dal Roskomnadzor. Stesse motivazioni alla base anche dello stop inflitto nel mese di ottobre nei confronti di Discord e ad agosto nei riguardi di YouTube, costretta a veder ridotta la velocità di riproduzione dei suoi video fino a 128 kb per secondo.
«Non vogliamo nulla di straniero nei nostri cieli», recitava lo spot di Ded Moroz. Eppure, a giudicare dal cappio legato pian piano intorno al collo delle piattaforme di comunicazione, sembra che Mosca non abbia intenzione di avere a che fare con niente di straniero nemmeno in termini digitali nel prossimo futuro, soprattutto se si tratta di strumenti che amplificano la possibilità di scambio tra cittadini entro i confini della Federazione. Che poi, in fondo, potrebbe non essere neppure una notizia, ma un occidentalissimo Babbo Natale abbattuto da un missile russo lo è eccome.