Lydia Ricci è un’artista statunitense conosciuta soprattutto per le sue sculture in miniatura, capaci di intrecciare presente e passato. Nata e cresciuta in Pennsylvania, si è laureata in Communication design presso la Carnegie Mellon University nel 1995. Prima di farsi conoscere per il progetto Podclubs e la serie di mini sculture From Scraps, ha collaborato con Chronicle Books, Bank of America e diversi studi di design indipendenti.
Figlia di un’immigrata ucraina – abile nell’improvvisare con ciò che aveva a disposizione – e di un padre italiano che non buttava mai nulla perché «un giorno potrebbe servire», Lydia Ricci ha sviluppato una sensibilità unica verso gli oggetti comuni, spesso trascurati dalla maggior parte delle persone. La parola chiave per comprendere la sua arte è “collezionare”, un gesto che diventa cura, conservazione e attenzione per la storia degli oggetti che ci circondano, trasformati dall’artista in un’espressione poetica, intima e introspettiva, ma anche profondamente significativa dal punto di vista etico. Il suo gesto artistico, delicato ma potente, ci accompagna con grazia a riflettere sui limiti del nostro stile di vita, spesso improntato a un consumismo insostenibile.
Quando l’abbiamo incontrata e intervistata, Lydia Ricci si è raccontata con una sincerità disarmante e una generosità che rispecchia il suo modo di intendere l’arte come la vita stessa. Ne è scaturito un racconto autentico, un inno alla filosofia delle piccole cose, che piccole non sono, e un invito a ripensare il nostro modo di vivere.
Potresti raccontarci il tuo percorso per diventare un’artista?
Per tutto il tempo che posso ricordare, passavo ore della giornata distesa sul pavimento della casa in cui sono cresciuta, dipingendo, tagliando, incollando qualsiasi cosa mi capitasse tra le mani, e quando avevo fame mi preparavo qualcosa da mangiare: la pasta. Ho sempre creato, fatto io qualcosa. Ho poi studiato graphic design all’università e ho lavorato in piccoli studi, dove ho avuto l’opportunità di esplorare l’uso professionale della fotografia, del disegno e del collage in quanti più progetti potevo. Ho poi co-fondato un piccolo studio di design che ho gestito per circa vent’anni. Ogni giorno lavoravo al mio tavolo pulito e ordinato dedicato al design, ma avevo allo stesso tempo anche un altro tavolo dove lavoravo su progetti più liberi. Quello era il mio tavolo “disordinato”. A quel tempo non mi rendevo conto che quella era la mia arte. Era solo quello che dovevo fare per sentirmi completa durante la giornata. Così, durante il giorno, mi giravo sulla sedia passando dal mio tavolo pulito a quello disordinato.
Com’è avvenuto il passaggio all’arte, come la intendi oggi?
Mi sono trasferita dalle città alla periferia per crescere meglio i miei figli, che erano piccoli. E per la prima volta in vent’anni mi sono trovata nella situazione di guidare regolarmente, e io odio la macchina: mi svegliavo ogni mattina in preda al panico pensando a ogni svolta e ogni strada che avrei dovuto percorrere solo per andare a fare la spesa. Alla fine, ho iniziato a costruire sculture di automobili che avevano lasciato un’impressione significativa nella mia vita. Queste sono state le prime sculture che abbia mai realizzato. Ciascuna richiedeva mesi di lavoro, ma erano estremamente soddisfacenti, anche se non particolarmente utili nel superare la mia paura di guidare. Mi sono quindi resa conto che mi stavo limitando facendo solo automobili e ho iniziato a creare oggetti significativi. Restavo sveglia tutta la notte a lavorare. Sentivo di aver finalmente trovato ciò che ero destinata a fare. E non volevo fermarmi. Ne ho realizzati sempre di più e ho iniziato a scrivere riguardo al sentimento dietro ogni pezzo, per poi animarli. Non c’era un piano preciso, solo seguire ciò che sembrava giusto e ciò che volevo o dovevo dire con quegli oggetti in quel momento.
Hai avuto maestri o influenze artistiche nel tuo percorso?
Circa sedici anni fa mi sono imbattuta in una vasta mostra di James Castle. Non ero mai stata così entusiasta davanti a un’esposizione. Era pura magia. C’erano alcuni animali da fattoria molto semplici realizzati con cartone, carta e spago che aveva trovato nella proprietà della sua famiglia. C’erano disegni fatti con fuliggine e saliva. Avevo con me mio figlio piccolo, che correva avanti, così ho dovuto attraversare la mostra in fretta, ma l’impressione non mi ha mai lasciata. Uso il suo lavoro come costante promemoria di come i materiali più semplici possano lasciare un’impressione duratura. Non c’è bisogno di complicarsi troppo o… essere sofisticati.
Come descriveresti il tuo rapporto con i materiali che usi per le sculture? Come hai iniziato a “riciclare”?
Non direi di aver mai iniziato a riciclare. Ho cominciato a collezionare materiali circa trent’anni fa, solo che ciò che raccolgo sono cose che altri probabilmente butterebbero via o riciclerebbero: metri a nastro di metallo rotti, documenti fiscali del 1983, scatole polverose trovate nei recessi più oscuri di una cantina. Inizialmente li custodivo in una piccola scatola sotto il mio tavolo “disordinato”. Con il tempo, quella scatola si è moltiplicata e sono diventate due, poi tre, quattro, cinque scatole, fino a uscire dalla scatola per occupare oggi più della metà del mio studio. La maggior parte di questi materiali proviene dalla casa in cui sono cresciuta: mio padre, italiano, non buttava mai via nulla, nel caso potesse tornarci utile un giorno! Questi oggetti, come amo chimarli io, non sono semplice materiale, sono i miei beni più preziosi.E di questo gli sono profondamente grata. Così, invece di lasciarli semplicemente sotto la mia scrivania, ho iniziato a usarli per creare le mie sculture. Queste opere mi hanno permesso di ricostruire diversi “momenti” della vita e, quindi, è sembrato naturale utilizzare materiali di scarto quotidiani per realizzarle. Ma è anche un modo per rendere omaggio ai materiali stessi.
Usi spesso la parola “collezionare”, nel senso di raccogliere e conservare in attesa di qualche (ri)utilizzo futuro. Da dove nasce questo approccio alla vita?
Penso di aver iniziato a “collezionare” per caso, anche se vengo da una famiglia in cui mio padre, come ti dicevo non butta mai nulla. A vent’anni, mi sono trasferita da sola dall’altra parte del Paese a vent’anni, portando con me solo una valigia di oggetti personali. Una volta che mi sono sistemata in un appartamento con coinquilini, continuavo a sentirmi terribilmente sola. Non avevo ancora fatto amicizie. Così, il venerdì, quando venivo pagata per il mio lavoro di “design” (guadagnavo dieci dollari l’ora!), facevo la passeggiata più lunga e tortuosa per tornare a casa, fermandomi in diversi negozi dell’usato. Compravo le cose più economiche che riuscivano a lasciarmi la maggiore impressione. Usavo questi oggetti eclettici per “decorare” l’appartamento e renderlo meno solitario. Non compravo quadri incorniciati da appendere al muro. Invece, appendevo pezzi rotti di elettrodomestici o vecchi articoli di cancelleria. Allo stesso tempo, ho iniziato a collezionare macchine da cucire e aspirapolvere rotti che la gente lasciava sul marciapiede. A un certo punto avevo quattro aspirapolvere rotti all’ingresso di casa e tre macchine da cucire rotte! E io nemmeno cucio. Ma mia madre, che è morta che avevo solo diciotto anni, e mia nonna sì: sono macchine bellissime da guardare.
Perciò senza questo collezionismo non esisterebbe la tua arte?
Sarei un’altra persona. I materiali che ho collezionato si sommano a quelli collezionati da mio padre e perciò tutto questo materiale è fatto di oggetti che per me hanno un certo significato anche se sono solo vecchi portachiavi di plastica rotti, agende rovinate dall’acqua, forniture per il cucito inutilizzabili. E perciò non so cosa sia venuto prima, ma quando ho iniziato a fare sculture è stato naturale cominciare dall’utilizzo di questi oggetti. Era ed è ancora oggi molto più soddisfacente sapere che i materiali, per quanto banali, con cui realizzo le mie opere catturano e cristallizzano tanta storia.
Qual è il processo creativo dietro le tue opere? Dove trovi ispirazione per i tuoi progetti?
Ascolto molto il mondo che mi circonda. Prendo l’autobus, origlio le conversazioni in ascensore e nelle file del supermercato. Penso alle cose che le persone aspettano con ansia, di cui si lamentano o di cui parlano a ruota libera. Le persone e le prospettive sono la mia più grande fonte d’ispirazione. Colleziono questi aneddoti e pensieri proprio come raccolgo i materiali e li riduco a sentimenti più semplici. Penso sempre agli oggetti: quelli che ci circondano, che ci aiutano, che ci intralciano. Quelli che non apprezziamo più. Quelli che hanno vissuto la nostra storia insieme a noi. Spesso erano proprio accanto a noi e non li abbiamo nemmeno notati. Così, quando scelgo un oggetto da realizzare, emerge un sentimento e comincia la scultura di entrambi. E col tempo uso queste sculture per esprimere concetti più profondi attraverso animazioni in stop-motion. Nulla è pianificato in modo dettagliato, ma mi trovo sempre più a mio agio a lavorare alla mia scrivania di notte, incollando e tagliando, circondata dai miei mucchi di materiali dopo aver mangiato un bel piatto di pasta.
Cosa vorresti comunicare attraverso le tue opere?
Le mie sculture sono estensioni della nostra vita quotidiana. Spero che mettano in luce alcune delle sfumature che potrebbero passare inosservate. Portando alla superficie questi momenti e sottolineandoli, credo che possiamo sentirli di più. Possono far sentire le persone nostalgiche o malinconiche, ma molto spesso le fanno ridere. Non mi prefiggo di ottenere una reazione specifica e spero che ognuno trovi qualcosa di un po’ diverso o personale in ciascuna di esse.
In un mondo dominato dal gigantismo, hai scelto di raccontarti usando opere in miniatura. Perché?
Sai cosa è buffo? È qualcosa che mi fanno notare gli altri. Nella mia mente sono opere grandi, anzi grandiose! Più grandi della vita! Le mie sculture condensano così tanti momenti e realtà, che non posso che diventare grandi. In ogni caso, penso che la scala più piccola possa aiutarmi a sentirmi che ho il controllo del momento che sto vivendo. Ci sto ancora riflettendo ed è qualcosa che accompagna la mia ricerca. E ora lavoro perciò anche sul grande formato. Ho appena completato una bicicletta a grandezza naturale. Ha occupato quasi metà del mio spazio di studio mentre la stavo realizzando. Volevo che fosse d’intralcio. Questa era una delle ragioni per cui la stavo creando. Quindi è vero e innegabile che la scelta della scala giusta è un fattore determinante in ciò che sto cercando di comunicare.
Vivi circondata dalle tue collezioni, che sono anche la tua vita. Ci racconti due opere a cui sei particolarmente legata?
Oh, è molto difficile come domanda! Cambio sempre e alcune opere tornano per il loro significato. Questa settimana direi il distributore di sigarette, The Game, che ho realizzato parecchio tempo fa. Parla dell’essere annoiati e in attesa (magari in un ristorante) quasi impazienti: ci ho pensato molto in questi giorni vedendo i miei figli sempre incollati ai loro telefoni, come tutti del resto. E allora sto pensando spesso al significato di essere annoiati al giorno d’oggi. E poi il ventilatore blu nella scatola degli anelli Can We Afford It?. Non riesco proprio a smettere di pensare alla logica dello spendere i soldi e a quanto il nostro modo di vivere ci richieda di acquistare sempre cose nuovo. Io odio profondamente farlo, soprattutto per me stessa. Quindi questo pezzo cerca di catturare le molte preoccupazioni che sentivo e continuo a sentire attorno a me. Così ce l’ho qui di fronte e continuo a riguardarlo e a sentire un profondo senso di colpa.