Dario Franceschini, giunto all’ennesima revisione politica della sua vita, come ha osservato Francesco Cundari, nell’intervista a Repubblica ha di fatto registrato l’impasse in cui si trova il Partito democratico. Dalla sua “officina-ufficio” ha smontato tutto il racconto di questi anni. Un bagno di realismo, si dirà, ma comunque la certificazione che tutto ciò che è stato detto, e tuttora viene detto, è carta straccia: non esiste e non esisterà una coalizione, non esiste e non esisterà un/a candidato/a premier (addio primarie, ma questo si era già capito), cari amici e compagni facciamocene una ragione, ognuno per sé e Dio per tutti.
È un’intervista al tempo stessa lucida e disperante, una fotografia dell’inquietudine degli elefanti del partito, la vecchia guardia che con toni diversi da Romano Prodi a Paolo Gentiloni a Pierluigi Castagnetti e persino Pier Luigi Bersani, quando ha parlato di «due anni a pane e propaganda», vorrebbe un Partito democratico più competitivo, più in campo, e più aperto. Ed eccoci qui davanti a un bricoleur di professione come “Dario” che stavolta smonta i pezzi e poi si vede: dinanzi a una coalizione di destra che proporrà al Paese una leader molto forte, il centrosinistra si presenterebbe senza coalizione e senza candidato/a premier, «marciare divisi e confusi», ha ironizzato Lia Quartapelle.
In effetti, messa così, è una partita persa in partenza. Giacché, tanto per dirne una, nei collegi uninominali bisognerà trovare degli accordi (in sostanza, è la desistenza: sai che entusiasmo!) tra partiti che non avranno prima stretto un patto politico forte di coalizione. «Come lo spieghiamo agli elettori?», chiede Matteo Orfini. Già, è un bell’handicap. L’Ulivo non è solo lontano: è agli antipodi. Chissà che ne pensano Prodi e Arturo Parisi.
Come al solito da Elly Schlein e il suo “giro” ieri non è venuta una sola parola, ma ormai bisogna abituarsi a questa modalità nazarenica di non reagire, non alimentare discussioni politologiche ma semmai rispondere al mondo con l’iniziativa “di movimento”, fabbriche, ospedali, treni, gay pride, pacifismo, la politica di strada contro quella del Palazzo, una movenza un po’ da anni Settanta per quanto scandita dagli innumerevoli «Meloni venga in Parlamento» su qualsiasi cosa.
Non che Franceschini si sia dimenticato di esternare i consueti elogi alla segretaria (da lui voluta, altrimenti non sarebbe segretaria) e però è chiaro che lo schema “Elly contro Giorgia” che pure era stato evocato dopo la vittoria alle primarie della ex Occupy Pd all’ex ministro della Cultura non gli passa per la testa, perché lo schema diventa il più politicista «vediamo chi prende più voti»: l’effetto magari sarebbe lo stesso ma così si certifica che Elly non è la carta vincente da sbandierare nelle piazze, come a confermare implicitamente l’opinione espressa da Elodie – «Schlein non ha carisma» – e infatti c’è pure bisogno dell’ossigeno di una quarta forza “moderata” che qualcuno, dice il bricoleur Dario, dovrebbe mettere in piedi («Renzi e Calenda siano più generosi», allude a questo?). Nel pentolone dem dunque Dario Franceschini ha buttato il suo professionismo un po’ triste e sottilmente enigmatico parendo allargare le braccia come a dire «le abbiamo provate tutte», e ora si ricomincia da capo nel girotondo delle tattiche di cui la sinistra può anche morire.