L’arrogante sfilata militare dei miliziani di Hamas per le strade di Gaza, durante e dopo la consegna alla Croce Rossa delle tre donne israeliane ostaggio, dimostra due cose. Innanzitutto, che i media mondiali, tranne rare eccezioni, coprono Hamas. Abbiamo visto infatti un centinaio di uomini armati e grotteschi nelle loro insegne di morte, robustissimi, in carne, con vestiti che sembravano usciti da una tintoria quanto erano lindi, scorrazzare per le strade di Gaza su pick-up bianchi, altrettanto lindi. Non una macchia di fango, non un segno di stenti. Le descrizioni di fame, miseria, morti per assideramento che riempiono i media, come se Gaza fosse tutta un lazzaretto di melma, inedia e morte, dunque, non concernono gli azzimati miliziani di Hamas, che evidentemente sono i veri profittatori della popolazione civile di Gaza che usano scientemente come scudo umano e alla quale sottraggono risorse. Ma questo non lo leggerete sui media. Né lo denuncerà il Papa.
Ma è più importante il secondo fatto che dimostra quella sfilata: Hamas è ancora in piedi, non è affatto sconfitta. Il diabolico combinato disposto dell’uso di centinaia di chilometri di bunker sotterranei in cui si muovono protetti migliaia di miliziani, unito dallo scudo contro incursioni belliche costituito dalla prigionia spietata degli ostaggi israeliani, ha dispiegato una nuova strategia militare vincente. Lo ripetiamo: Hamas ha inventato un nuovo modo di fare la guerra che unisce il secolare impiego dei tunnel, in cui erano maestri gli strateghi ottomani negli assedi, con l’uso terrorista degli ostaggi. Una novità assoluta che ha creato enormi difficoltà al pur agguerrito esercito israeliano.
Bisogna prendere atto che in un anno e tre mesi di bombardamenti e di azioni di terra il possente intervento militare israeliano è riuscito a imporre enormi danni e perdite alle milizie di Hamas, ma non le ha affatto distrutte. E soprattutto non si vede come e quando potrebbe distruggerle.
Questo è il punto politico e strategico scabroso oggi. Come si vede dalle immagini, le abitazioni di Gaza sono in larga parte abbattute dai bombardamenti e la distruzione, un domani, potrà anche diventare totale, ma non sarà sufficiente a sconfiggere Hamas.
Di questa realtà si discute molto tra i vertici militari di Israele, soprattutto dopo che già a novembre, dopo aver rassegnato le dimissioni per anticipare Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant, già generale capo di Stato maggiore, aveva dichiarato che «le Israelian Defence Forces hanno raggiunto tutti i loro obiettivi nella Striscia, non vi è alcuna ragione per non raggiungere un cessate il fuoco». Oggi, le dimissioni del capo di Stato maggiore Herzi Halevi, e quelle del generale che comandava le operazioni a Gaza, vanno interpretate come una drammatica rottura tra le indicazioni politiche del governo (che intende continuare ad libitum la guerra di Gaza) e le valutazioni opposte delle forze armate.
Un inedito nella storia di Israele che si identifica in toto, nella stessa biografia dei suoi cittadini, donne e uomini, con il proprio esercito. Non solo: Herzi Halevi, come Yoav Gallant, e mesi fa il comandante dell’intelligence militare Aaron Haliva, hanno collegato le dimissioni alle responsabilità per il disastro del 7 ottobre, dunque, tutti i vertici militari le hanno assunte, pagandone il prezzo. Solo Bibi Netanyahu si rifiuta di farlo, ma è sempre più in difficoltà nell’impedire una commissione d’inchiesta indipendente che le dimissioni dei capi militari impongono sia fatta al più presto.
Il nodo del contrasto tra Idf e Benjamin Netanyahu è dunque la fine delle operazioni a Gaza, che il premier rifiuta per una sola ed egoistica ragione: significherebbe la crisi di governo, perché i para fascisti Itamar Ben-Gvir (che infatti si è dimesso da ministro per protesta contro l’attuale cessate il fuoco) e Bezalel Smotrich minacciavano e minacciano ancora la caduta del governo se si facesse quella scelta.
Oggi il governo di Gerusalemme non cade solo per la promessa di Netanyahu a Smotrich di riprendere la guerra dopo la prima fase della tregua e la liberazione di trentatré ostaggi. Promessa che per essere mantenuta deve fare i conti però non solo con i contrasti con i vertici militari, ma anche con l’incognita Donald Trump.
A smentita dei favori con cui lo stesso Netanyhau e larga parte degli israeliani auspicavano la sua vittoria, Donald Trump si è mosso finora in modo inaspettato. A sorpresa, Steve Witkoff, il suo inviato in Medio Oriente, ha imposto la settimana scorsa, con minacce pesanti di sospensione degli aiuti militari, a un recalcitrante Netanyahu di firmare quella tregua con Hamas: tregua che il premier israeliano non aveva nessuna intenzione di accettare.
Ora, non è chiara ancora la strategia del nuovo presidente americano, ma non è improbabile che intenda chiudere al più presto il conflitto di Gaza per riprendere intensamente le trattative con l’Arabia Saudita per un grande accordo di pace in Medio Oriente. Non è improbabile, insomma, che prema pesantemente sul Qatar, complice e compare di Hamas, per il rilascio di tutti gli ostaggi, i vivi e i morti, e quindi per un cessate il fuoco definitivo a Gaza. Questa pare sarà la sua strategia nell’imminente viaggio in Medio Oriente.
Se così sarà, se Trump farà prevalere le ragioni e gli equilibri di una sistemazione pacifica dell’area mediorientale su quelli della destra israeliana, l’esecutivo Netanyahu difficilmente reggerà, e finalmente si potranno fissare elezioni anticipate in Israele. A meno che Bibi, con la sua straordinaria abilità tattica, non riesca a cambiare in corsa le sue alleanze di governo sostituendo i voti della destra para fascista con quelli di una parte dell’attuale opposizione.