Il futuro del Medio OrienteLa tregua a Gaza, e la trattativa tra Israele e Arabia Saudita

Hamas ha accettato i termini per la pace per merito di Mohammed bin Salman, che in questi mesi ha lavorato per rafforzare l’influenza di Riyad in tutta la regione, a spese dell’Iran

AP/Lapresse

Hamas ha accettato i termini di una tregua con Israele che per quattordici mesi aveva rifiutato. Perché oggi è sfiancata dalla pressione militare israeliana, ma soprattutto perché finalmente si è fatta sentire una forte pressione araba per la liberazione degli ostaggi. Pressione innanzitutto da parte del padrino di Hamas, il Qatar, che teme di essere vittima dell’ira di Donald Trump – ha assicurato «un inferno» se gli ostaggi non fossero stati liberati entro il 20 gennaio. Da parte loro, i dirigenti qatarioti hanno sempre magistralmente finto in questi quindici mesi trascorsi dal pogrom del 7 ottobre 2023 di essere dei mediatori con Israele. Ma non è mai stato in realtà così: sono sempre stati invece soci di Hamas e ne hanno sempre difeso gli interessi, anche in una logica di lungo respiro strategico.

Colpiti dalla brutta fine che ha fatto l’Asse della Resistenza iraniano, col quale hanno sempre flirtato, i qatarioti sanno dunque molto bene che gli Stati Uniti possono procurare loro molti danni, soprattutto in asse con un’Arabia Saudita con la quale, dopo la rottura degli anni scorsi, intendono ora avere buoni rapporti.

Nei fatti, questa accettazione di un accordo sugli ostaggi nei termini finora rifiutati – senza cioè il ritiro definitivo di Israele da Gaza, che sarà certo solo quando questi saranno effettivamente riconsegnati – è anche il risultato di un forte, fortissimo, e sotterraneo, impegno di Riyad in funzione anti-iraniana. Mohammed bin Salman, il reggente saudita, ha infatti subito capitalizzato le continue disfatte dell’Iran degli Ayatollah e dei Pasdaran e dei loro proxy inferte da Gerusalemme manu militari per dispiegare una nuova e forte iniziativa politica saudita regionale.

Innanzitutto, Mohammed bin Salman è riuscito a imporre a un Hezbollah definitivamente indebolito un fedele alleato dei sauditi, il comandante dell’esercito Joseph Aoun, nel ruolo di presidente della Repubblica del Libano. Poi ha imposto ad Abu Mazen di uscire dalla sua sonnolenta impotenza e di attaccare i presidi di Hamas e “Movimento per il Jihad Islamico in Palestina” a Jenin. La battaglia tra le forze di sicurezza della Anp e i jihadisti, sollecitata sotterraneamente dai sauditi, è così durata tutto dicembre e, nella prima settimana di gennaio, è costata la morte di ben cinque militari palestinesi, di una decina di miliziani di Hamas e Jihad islamico, decine di feriti e un centinaio di arresti. Soprattutto, questo è il senso della forte pressione saudita su Abu Mazen, questa battaglia di Jenin ha comportato la fine dell’accordo dei mesi scorsi siglato non a caso a Mosca, tra al Fatah e Hamas per il futuro governo dei Territori occupati.

Mohammed bin Salman, intende infatti far giocare all’Arabia Saudita un ruolo da protagonista nel futuro governo di Gaza e della Cisgiordania, in raccordo con gli Stati Uniti e anche con Israele, dentro la logica degli Accordi di Abramo che continua a perseguire. Quindi intende eliminare dal terreno il più possibile sia Hamas sia Hezbollah. Per questo ha sviluppato una manovra a tenaglia mettendo un suo fedele alleato alla presidenza del Libano, con lo scopo esplicito di fare andare in minoranza e all’opposizione Hezbollah e di escluderlo quindi dalla formazione del prossimo governo di Beirut, in cui ha imposto di nuovo un suo uomo, il giurista internazionale Nawaf Salam, e imponendo alla Anp di Abu Mazen una rottura con Hamas.

Contemporaneamente, bin Salman ha dispiegato alla massima potenza una penetrazione a tutti i livelli nei confronti del nuovo governo della Siria dopo la rovinosa caduta di Bashar al Assad. Di fatto, Riyad, che a differenza della Turchia dispone di enormi flussi economici da impiegare per l’indispensabile ricostruzione della Siria e che ha sempre avuto forti legami con i ribelli siriani, punta con ottime possibilità di successo a un forte protettorato in condominio con Ankara sulla nuova Siria.

Nel complesso, Riyad ha quindi piazzato tre forti leve saudite intorno a Israele: un governo del Libano che può fortemente e direttamente influenzare, un governo della Siria altrettanto sensibile alle strategie di Riyad e un Abu Mazen e una dirigenza palestinese obbligati a seguire gli ordini dei sauditi.

Forte di questa articolata manovra di sostituzione saudita dei vuoti di iniziativa politica di un perdente Iran, il reggente saudita si prepara a trattare da una nuova posizione di forza con Israele, una volta terminata definitivamente la battaglia di Gaza, per una ridefinizione degli Accordi di Abramo che erano di fatto già firmati da Riyad il 6 di ottobre 2023, firma saltata col pogrom del 7 ottobre.

La ridefinizione di quegli Accordi non è facile per Israele perché oggi l’Arabia Saudita, a differenza del 2023, non può più disinteressarsi della questione palestinese, mentre la stragrande maggioranza della popolazione israeliana non vuole la soluzione dei due Stati perché, dopo l’umiliante sconfitta dello Stato ebraico subita col pogrom del 7 ottobre, teme, a ragione, per la propria sicurezza.

Dunque, si delinea, quando terminerà la guerra di Gaza, tra Riyad e Gerusalemme una trattativa dura sul futuro della Palestina. Trattativa che sicuramente non potrà essere condotta da un governo israeliano come quello attuale. L’unico dato certo è che questi Accordi di Abramo sono indispensabili sia per Israele sia per Riyad. Non va quindi affatto escluso che Benjamin Netanyahu, forte dei successi militari contro l’Iran e i suoi alleati, pur di essere dentro questa strategica partita, non operi in futuro, con o senza elezioni anticipate, un clamoroso e cinico cambio di alleanze, rompendo finalmente con la destra parafascista di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

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