Del draghismo ormai non resta più nulla. Con i fatti di questi giorni si può dire che il mantello draghiano che per la prima parte della premiership di Giorgia Meloni aveva in qualche modo coperto la sua azione (specie sull’atlantismo) è stato definitivamente lacerato e gettato via. I due esempi di questo inizio d’anno sono eclatanti: il blitz americano e le dimissioni di Elisabetta Belloni. Ve lo immaginate Mario Draghi bypassare qualunque regola, anche quella di informare il ministro degli Esteri, saltare sull’aereo di Stato diretto verso la magione di un non ancora presidente degli Stati Uniti per parlare non si sa bene di cosa? O Draghi che tratta (come? quando?) fior di miliardi con un personaggio molto discutibile fuori dalle regole parlamentari e di mercato?
La realtà è che Meloni sta attuando una modalità che, come ha scritto Flavia Perina sulla Stampa, «scassa ogni ordinaria procedura e cautela, trasforma in sarabanda il minuetto diplomatico (…), è l’approccio iper-pragmatico che recide i lacci e lacciuoli della consuetudine, gli impicci bizantini del protocollo». Intendiamoci, non siamo nell’Ottocento. E dunque difendere il barocchismo di regole obiettivamente superate dalla velocità di questo tempo sarebbe ridicolo (spesso la sinistra dà proprio l’impressione di abbarbicarsi sui vecchi cari alberi della tradizione). E però “scassare” non è da statisti: è vicino al banditismo politico. Perché il punto è stabilire quale sia il limite di una pratica tecnicamente eversiva dell’ordine esistente.
Il caso Belloni, che non a caso è maturato nella fase del melonismo arrembante e scassa-regole, è un altro simbolo della chiusura del draghismo inteso come valorizzazione delle competenze fino al punto di sottomettere la politica a queste ultime. E infatti Belloni se ne va appena intuisce che il governo vuole allungare le mani sui servizi.
Quanto avevano torto quegli osservatori che credevano di vedere nel melonismo il prolungamento del draghismo con altri mezzi. Siamo invece agli antipodi. Draghi è un leader sui generis, un intellettuale di stampo illuministico che antepone il dato empirico-scientifico alle malìe della politica come arte retorica e chimica dell’intrigo a caccia del consenso. Meloni è esattamente l’opposto. Non ha nulla di illuministico, semmai una concezione ruvida e puramente agonistica della politica fondata sulla forza, anche grazie a un uso massiccio di propaganda e di immagine, tutta protesa a soverchiare l’altro da sé, a sottomettere regole e consuetudini, talvolta persino sotto l’aspetto della buona educazione. A vincere più che convincere, anche e soprattutto facendo surf sull’onda tecnocratico-reazionaria che si sta imponendo nel mondo.
All’opposto della stagione draghiana, adesso le competenze sono diventate un optional se non un orpello “borghese” nel nome di un primato della politica intesa secondo machiavellismi da manualetto Bignami: dov’è la scienza, per capirci, nell’agenda meloniana? Lì non funziona Machiavelli ma Cartesio, per questo il governo non ne parla mai, e d’altronde lei era contro il lockdown e le evidenze scientifiche, fosse stata al governo nel 2020/21 avrebbe sacrificato vite umane per un pugno di voti.
La stagione di Draghi, che era parsa in grado di restituire agli italiani un senso composto di fiducia nella ragione e in una politica non distruttiva, è stata perciò una breve fiammata che nessuno ha saputo o voluto tenere viva. E la rileggiamo oggi come incastrata tra il mediocre circo populista degli anni precedenti e il dirompente dilettantismo dei nuovi pirati al potere, in fondo due facce dell’arretratezza della cultura politica di questo Paese.