Rinforzi enoiciCos’è il Vermouth di Torino e come si produce

Da medicinale a simbolo di socialità che ha aperto le porte al moderno aperitivo. Tutto quello che c’è da sapere sul vino aromatizzato (ri)nato ai piedi della Mole

Foto di Giorgio Trovato su Unsplash
Foto di Giorgio Trovato su Unsplash

Immaginate la Torino dell’Ottocento. Prendete Camillo Benso Conte di Cavour, Cesare Balbo e Massimo D’Azeglio e pensateli seduti al tavolo di un caffè a discutere di politica e letteratura, sorseggiando un bicchiere di vermouth. Non sappiamo se davvero sia mai andata così, ma certamente anche loro facevano parte della schiera di appassionati che, a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, nel capoluogo sabaudo accoglievano con gioia la rinascita di questo vino aromatizzato assurto a simbolo conviviale, una sorta di rituale mondano antesignano del moderno aperitivo.

Della sua storia, ma anche del suo presente fatto di numeri in crescita e aspettative ottimistiche in termini di vendite e consumi, si è discusso in occasione dell’evento “Il Vermouth di Torino…a Torino”, organizzato dal Consorzio del Vermouth di Torino per scattare una fotografia sullo stato di salute di questo prodotto sempre più apprezzato anche oltreconfine.

Da Ippocrate al Piemonte
Sfatiamo intanto un falso mito. Il vermouth non è stato inventato a Torino, ma Torino ha dato i natali al vermouth come oggi lo conosciamo. Il nome deriva dal termine tedesco wermut, che definisce l’Arthemisia absinthium, la base aromatica principale (ecco un articolo per approfondirne la conoscenza). Le sue origini primordiali risalgono però ai tempi di Ippocrate, che creò una bevanda molto simile al vermouth lasciando macerare i fiori del dittamo e dell’artemisia in un vino locale ricco di alcol e zucchero. La sua preparazione toccò presto i confini dell’Impero Romano, dove venne chiamato vino absinthiatum e prescritto anche come medicinale. Nel Medioevo incontrò grande diffusione grazie ai monaci delle abbazie di Francia e Germania, ma fu solo intorno al 1600 che il vino ippocratico assunse definitivamente il nome vermouth.

La sua storia italiana ha inizio sul finire del Settecento all’interno della Liquoreria Marendazzo di Piazza Castello, a Torino, dove un giovane e curioso Antonio Benedetto Carpano, vestendo i panni di un piccolo chimico provò a declinare una nuova bevanda. Fu così che, miscelando una partita di Moscato di Canelli a una trentina di erbe e radici ottenne il primo vermouth della tradizione tricolore. Esperto non solo nell’arte della liquoreria, ma anche in quella della promozione, Carpano fece recapitare una cassa di vermouth alla corte dei Savoia, ricevendo il parere favorevole di Re Vittorio Amedeo III. Per il vermouth era il momento della svolta, sostenuta negli anni da una compagine di liquoristi – riuniti nell’Università dei Confettieri e Liquoristi della Città di Torino – che godevano di ampia celebrità.

La nuova bevanda iniziò ad essere apprezzata anche oltre i confini regionali e il vero successo arrivò a metà Ottocento, quando per la prima volta venne presentata alle fiere internazionali ed esportata inizialmente in Francia e in Spagna, quindi fuori dall’Europa, principalmente in America Latina, dove erano numerose le colonie di italiani, e negli Stati Uniti, dove diventò subito protagonista della cultura dei cocktail.

In questi anni segnati dallo spasmodico tentativo di allargare i confini, l’Italia fu prolifica anche di nuovi produttori, tra cui Cinzano, Cora, Cocchi e Anselmo – ognuno con la sua ricetta – e commercianti di vermouth come Martini&Rossi, per citarne alcuni.

La bottiglia istituzionale del Consorzio del Vermouth di Torino (credits Consorzio del Vermouth di Torino)
La bottiglia istituzionale del Consorzio del Vermouth di Torino (credits Consorzio del Vermouth di Torino)

Dal riconoscimento alla regolamentazione
Il 1933 segna una data importante per il Vermouth di Torino, perché è in quest’anno che con un Regio Decreto Vittorio Emanuele III firmò il primo documento che dettava le regole di produzione, dalla gradazione minima alla percentuale in volume del vino base. In epoca più recente, nel 1992, anche la Comunità Europea intervenne con nuove indicazioni, validando l’esistenza del Vermouth di Torino e riconoscendolo più tardi, nel 2017, come Indicazione Geografica Tipica (Igp).

Tutela, promozione e valorizzazione di questo prodotto sono oggi nelle mani del Consorzio del Vermouth di Torino, nato nel 2019 dalla volontà dei produttori di dotarsi di una regolamentazione e di un disciplinare in grado di garantire il completo controllo della filiera produttiva, dai campi di coltivazione delle botaniche allo scaffale.

L’ABC del Vermouth di Torino: dagli ingredienti all’intervento dei cinque sensi
Partiamo dagli ingredienti. Protagoniste del Vermouth di Torino sono le piante che appartengono al genere ‘artemisia’ e, in particolare, le specie Artemisia absinthium e Artemisia pontica, coltivate o raccolte in Piemonte. La base è composta da vino bianco, rosato o rosso, aromatizzato con estratti naturali ottenuti da un’ampia gamma di erbe e spezie, mentre la dolcificazione può essere data da zucchero, mosto d’uva, zucchero caramellato o miele. Il colore ambrato si ottiene esclusivamente dall’aggiunta del caramello.

Il Vermouth di Torino si classifica in base al colore (Bianco, Ambrato, Rosato o Rosso) e alla quantità di zucchero impiegata nella sua preparazione. Può essere, quindi, Extra Secco o Extra Dry quando contiene meno di 30 grammi di zucchero per litro, Secco o Dry con meno di 50 grammi per litro, oppure Dolce se in presenza di un tenore zuccherino pari o superiore ai 130 grammi per litro.

Il suo colore, invece, può variare da bianco a giallo paglierino fino a giallo ambrato e rosso: le singole caratteristiche sono legate agli apporti cromatici determinati dai vini e dall’eventuale impiego del caramello. La zona di produzione del Vermouth di Torino comprende l’intero territorio della Regione Piemonte, particolarmente vocata per la coltivazione delle erbe aromatiche utilizzate per la produzione, ed è legata a doppio filo alla città di Torino.

Preparazioni di infusioni presso la distilleria Bordiga (credits Bordiga 1888)
Preparazioni di infusioni presso la distilleria Bordiga (credits Bordiga 1888)

Il metodo di produzione (spiegato semplice)
Le strade per produrre il vermouth sono essenzialmente due. «Storicamente – spiega Fulvio Piccinino, esperto, divulgatore e ambasciatore del Vermouth di Torino – per realizzarlo si mettevano le erbe direttamente a bagno nel vino: si prendeva un vino bianco, si aggiungevano le erbe e il produttore lo andava poi a zuccherare a seconda del proprio gusto personale. Se il vermouth veniva consumato in fretta, il cosiddetto ‘vermouth da città’ fatto tecnicamente homemade nei locali o all’interno delle locande, veniva lasciato così. Se invece doveva essere spedito o fare un viaggio, anche breve, si andava a fortificare con l’aggiunta di alcol per permettergli di non andare in marcescenza».

Poi è arrivato il Vermouth di Torino, e con questo è cambiato anche il metodo produttivo. «La macerazione delle erbe e delle spezie della ricetta avviene in alcol. – prosegue Piccinino – Ovviamente non un alcol a 96°, ma un alcol diluito con acqua e portato a una gradazione che normalmente si attesta intorno ai 50-60°. Si lascia quindi macerare il composto per 21 giorni, esattamente come accadeva per il vino. La ‘tintura’ così ottenuta viene poi messa dentro il vino e funge sia da fortificante, sia da aromatizzante. Con il vantaggio di avere un’intensità superiore perché l’alcol è più performante rispetto al vino. Successivamente si aggiunge lo zucchero, che serve a completare la ricetta, e dopo un ulteriore riposo di 20 giorni si filtra e si mette in bottiglia, dove riposa un altro mese circa per ovviare a quel che si chiama ‘mal di bottiglia’. Dopo aver imbottigliato, infatti, il prodotto non andrebbe bevuto subito, ma lasciato riposare per qualche tempo».

X