Quando venerdì scorso è stato annunciato lo stanziamento di duecentocinquanta milioni di euro per le imprese del settore moda da parte del governo, la Camera della Moda Nazionale Italiana ha subito rilasciato un comunicato stampa. Pur tra i formalismi del caso e i ringraziamenti necessari, il presidente dell’ente Carlo Capasa ha affermato che «duecentocinquanta milioni sono uno stanziamento utile, anche se non risolutivo. Ora sarà determinante accertare come i fondi saranno messi a disposizione delle imprese». E in effetti la domanda sulle modalità di erogazione appare lecita, considerata la grossa crisi che il settore attraversa già dallo scorso anno, e che sembra destinata a protrarsi. Non si parla qui dei destini della maison – quelle italiane, a parte le eccezioni di Prada, Dolce&Gabbana e Armani – sono di proprietà di conglomerati finanziari esteri “too big to fail”, quanto delle manifatture e delle fabbriche che costituiscono la spina dorsale di quel brand riconosciuto in tutto il mondo come Made in Italy. Un nome che è divenuto un simbolo, talmente potente che è anche nella dicitura del Ministero voluta dal Governo Meloni. Da quando la presidente è arrivata al potere nel 2022, è stato rinominato MIMIT – Ministero delle Imprese e del Made in Italy (il nome precedente era Ministero dello Sviluppo Economico).
E proprio sul sito ufficiale del dicastero si è potuta leggere nel dettaglio la misura annunciata dal ministro Adolfo Urso. Al settore della moda saranno destinati duecentocinquanta milioni di euro, così ripartiti: cento milioni per i contratti di sviluppo, altri cento milioni ai mini contratti di sviluppo, quindici milioni per accompagnare la transizione ecologica e digitale, e 30,5 milioni per promuovere la sostenibilità nel settore. «Una scelta strategica per sostenere un comparto che rappresenta l’eccellenza del Made in Italy e un pilastro della nostra economia» ha commentato il ministro. «Cifra significativa messa a disposizione attraverso strumenti concreti per dare alle aziende della moda la stabilità e la fiducia di cui hanno bisogno per tornare a crescere”.
Il comunicato ufficiale evidenzia come si sia al lavoro anche per trovare un nuovo perimetro d’azione allo strumento della cassa integrazione, che risulta poco usato nonostante le difficoltà fronteggiate dalle Piccole e Medie aziende italiane (le PMI). Secondo il monitoraggio dell’Inps per il 2024 e il 2025 per il settore della moda, su cui il governo ha stanziato circa centodieci milioni di euro, si evince infatti che sono stati erogati allo stato attuale solo 2,9 milioni per la cassa integrazione. «Da mesi ci battiamo affinché vengano prese in considerazione le nostre proposte da trasformare in emendamenti della legge di bilancio e per questo ringraziamo il ministro Urso per lo stanziamento comunicato» ha proseguito Capasa. «Prendiamo atto del suo personale sforzo sul Milleproroghe concernente il credito di imposta Ricerca e sviluppo che tuttavia pesa come un macigno sulle imprese della moda e che auspichiamo trovi una soluzione diversa da quanto oggi proposto, basata su un saldo e uno stralcio come da noi più volte richiesto».
Capasa si riferisce qui al credito di Imposta che attanaglia molte PMI italiane, per il quale il governo a oggi ha previsto solo la presentazione di un emendamento al decreto-legge Milleproroghe, che modificherebbe i termini di adesione alla procedura di riversamento, prevedendo uno sconto in sostituzione del contributo. Una misura che il ministero stesso, nel comunicato, riconosce essere “parziale” lamentando «gli errori compiuti da altri nelle recenti legislature che potrebbero avere lasciato una falla aperta probabilmente superiore ai tre miliardi». Soluzioni politiche a parte, la situazione attuale del Made in Italy è obiettivamente critica, per motivi che vanno anche oltre la presenza o l’assenza di uno Stato a sostegno e protezione della vasta rete di piccole e medie aziende distribuite per tutto lo stivale, con una varietà di produzione e dettaglio che è impossibile da ritrovare in qualunque altro paese (e infatti, anche i principali brand francesi, da Dior a Celine, vedono in un plus potersi fregiare dell’etichetta “Made in Italy”).
A sottolinearlo con una chiarezza alla quale è impossibile sfuggire è stato il Business of Fashion che nel pezzo The future of Made in Italy: many factories will disappear mette nero su bianco una situazione molto più problematica di quanto il pubblico generalista non si immagini. Secondo Infocamere, società delle Camere di Commercio italiane per l’innovazione digitale, nei primi tre quadrimestri del 2024 più di duemila aziende di abbigliamento, tessili e pelletteria hanno chiuso, registrando il risultato peggiore tra tutti i settori produttivi del paese. Una situazione che è il rimbalzo dello spending-revenge post Covid, dopo il quale la domanda del lusso si è appiattita. E in effetti, secondo i dati Istat elaborati dal Centro Studi di Confindustria Accessori Moda «le vendite estere si sono attestate complessivamente a 9,45 miliardi di euro, quasi ottocentotrentasei milioni di euro in meno (ovvero il – 8,1 per cento) se equiparate a gennaio-settembre 2023.
Un calo che ha colpito in maniera critica il comparto della pelletteria fiorentina (da Confindustria Moda non è possibile ottenere dichiarazioni al momento, considerato che l’associazione è entrata nel trimestre bianco precedente a nuove elezioni, ndr). Nel mentre, le aziende maggiori della stessa regione, quelle sinonimo di impareggiabile qualità, vengono spesso acquisite dai grandi gruppi. Se a novembre scorso la conceria Ausonia – che in passato ha fornito pelli pregiate a nomi come Louis Vuitton, Poltrona Frau e Cassina – è stata acquistata dal gruppo cinese Henan Prosper & Colomer, nel 2023 LVMH Métiers d’Art ha rilevato la conceria pisana Nuti Ivo, e ancora prima, nel 2022, il gruppo Prada ha rilevato il 43,65 per cento della Conceria Superior di Santa Croce sull’Arno, una realtà con più di sessant’anni di storia specializzata nel settore lusso.
La difficoltà delle maison a gestire la filiera e i conseguenti scandali, con borse e abbigliamento di brand del lusso prodotti in opifici che non operavano in condizioni di sicurezza, hanno portato solo nello scorso anno all’avvio di istruttorie dell’Antitrust, che sostiene che alcune società dei brand in questione (Armani e Dior) abbiano “enfatizzato l’artigianalità e l’eccellenza delle lavorazioni”. Un danno (di immagine) che si è aggiunto alla beffa, a sentire chi, nel distretto, lavora. «Il buon nome del Made in Italy è usato per parlare di prodotti realizzati in maniera meccanizzata, che nulla hanno a che fare, in termini di qualità, con ciò che siamo abituati a definire tramite quella sigla» spiega Antonio Fantappié, proprietario della pelletteria toscana Atlantis Leatherworks, specializzata nel mercato di fascia alta, e fondatore del brand di borse Iacobella.
«Le concerie soffrono di più perché essendo strutturate a livello industriale, hanno dei macchinari che non rendono a meno di non produrre tanto, ma la situazione generale è drammatica. Nella mia azienda sto utilizzando la cassa integrazione, si salva il salvabile così come durante il periodo Covid: il problema è che l’Inps paga con grande ritardo e le aziende spesso devono anticipare. Per quanto riguarda la filiera produttiva, fino alle ultime scoperte della Guardia di Finanza, i controlli che i brand operavano si fermavano al primo fornitore, senza andare a indagare sui subappalti, probabilmente per una convenienza economica». Le parole di Fantappié riflettono in effetti le problematiche del controllo delle filiere che stanno riscontrando diversi grandi gruppi, evidenziati dal pezzo del Business of Fashion Inside Luxury’s broken Audit System.
«Tra l’altro» prosegue Fantappié «i brand ti danno una commessa, ma i contratti che vengono firmati lasciano loro campo libero per poi sfilarsi agevolmente, richiedendoti il massimo dello sconto possibile, preferendo poi spesso andare a produrre portafogli all’estero, in Turchia, dove magari possono pagare cifre inferiori per via del costo del lavoro, minore che nel nostro paese. Le aziende accettano condizioni inique perché sono allo stremo, ma ovviamente il prodotto finale, realizzato con delle richieste di materiali più economici, proprio per ridurre i costi sostenuti dai brand, non ha la qualità del Made in Italy di cui poi parlano, e di certo non è riflettuta dal prezzo, che invece è maggiorato rispetto al passato». Se tagliare i costi, per poi aumentare i margini di ricavo, è un’ “abitudine” dei brand di cui ha già parlato Bof, il problema è anche nella legislazione del Made in Italy, ad oggi ferma al Regolamento CEE del 1992 che istituisce un codice doganale comunitario. Secondo l’Articolo 24 della legge 12/10/1992 (qui il Link del sito ufficiale della Comunità Europea) “una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale”. Una definizione che lascia ai brand una certa libertà di muoversi, facendo realizzare alcune fasi della lavorazione in paesi dove il costo del lavoro è minore (una successiva dicitura, “cento per cento Made in Italy”, definita all’articolo 16 del decreto legge 166 del 2009 richiede ai prodotti che vogliano fregiarsene di realizzare la totalità del prodotto in Italia, ma Made in Italy rimane, senza sorprese, quella più usata oggi).
Il problema in Italia, di cui il governo è consapevole – lo ha evidenziato nel comunicato ufficiale a latere dell’annuncio dello stanziamento – è anche nel ricambio generazionale, nel passaggio di consegne tra artigiani che spesso lavorano ben oltre l’età pensionabile, e giovani che non trovano nessuna fascinazione nei mestieri manuali. Una complicazione non da poco, a cui i grandi conglomerati stanno cercando di ovviare: Lvmh ha creato nel 2014 l’Istituto dei mestieri d’eccellenza, definito sul sito come il “primo programma di formazione teorico-pratico nel mondo del lusso” che offre settantuno corsi (gratuiti) nei mestieri della creazione, dell’Artigianato e dell’esperienza clientela, in otto paesi (Francia, Svizzera, Italia, Stati Uniti, Spagna, Giappone, Germania, Cina). Per garantirsi il reclutamento dei talenti futuri, inoltre, dal 2021 Mestieri d’Eccellenza LVMH ha avviato il programma “Excellent!” che ha l’obiettivo di far conoscere agli studenti delle scuole medie e superiori questi mestieri, e le future opportunità formative disponibili sul territorio: attività che hanno coinvolto sino ad oggi più di duemilasettecento ragazzi e ragazze solo sul suolo italiano. Gli studenti più meritevoli a fine programma ricevono sia il diploma della scuola e/o università partner (tra di esse ci sono il Polimoda di Firenze ma anche l’Università Ca’ Foscari di Venezia), e il Certificato d’Eccellenza, riconosciuto da tutte le Maison del Gruppo LVMH e dai suoi partner.
«Questi mestieri non sono più percepiti come desiderabili dai giovani» conclude Fantappié. «La maggioranza dei proprietari di aziende manifatturiere della zona aspetta solo di arrivare all’età pensionabile per poi chiudere, i loro figli sono all’estero o non hanno il desiderio di proseguire l’attività familiare. I piccoli tacchifici, guardolifici, ricamifici, stanno sparendo; quindi, è naturale che le maison cerchino di fidelizzare le nuove leve, e creare una nuova generazione di artigiani internamente: non hanno alternative».
Quanto a questa situazione drammatica abbiano contributo anche certe dinamiche messe in atto dagli stessi gruppi finanziari non è possibile quantificarlo, ma il futuro problema è anche nelle tariffe doganali già preconizzate dal nuovo governo americano guidato dal Presidente Donald Trump. Alla sua cerimonia di inaugurazione, tra i “tech bro” e capi di stato, spuntava anche Bernard Arnault, patron di LVMH, che nel 2017 aveva già aperto in Texas uno stabilimento produttivo, il Louis Vuitton Rochambeau Ranch, alla presenza proprio di Trump, con l’obiettivo di creare mille posti di lavoro nei successivi cinque anni. Posti che potrebbero aumentare a dismisura: nelle scorse ore proprio Arnault ha annunciato di stare valutando di aumentare la sua presenza negli Stati Uniti, dove si percepisce un “vento di ottimismo” che contrasta con la “doccia fredda” della possibilità di nuove maxi- tasse sul territorio francese (dichiarazioni fatte a margine della conferenza stampa per presentare i risultati dell’ultimo quadrimestre, e riportate da Reuters).
Un vento di ottimismo del quale il Made in Italy difficilmente beneficerà. A meno che le istituzioni, la società civile e le associazioni di categoria, non si decidano a un’inversione di rotta, prima che sia troppo tardi, e quella dicitura perda definitivamente di significato, trascinata dal vento e dall’incuria, nella landa desolata dell’irrilevanza.