Lo hanno descritto come un folle sanguinario. Un leader malato di mente, nel migliore dei casi. Un’immagine resa ancora più inquietante da dettagli raccapriccianti: i dissidenti lasciati sbranare dai cani o giustiziati a cannonate. E se invece Kim Jong-un fosse uno stratega? Un dittatore, certo. Ma perfettamente razionale nel giocare la sua partita a scacchi con la comunità internazionale. Anzi, forse uno dei pochi ad aver sbagliato poche mosse. «Per capire davvero quello che sta succedendo, bisogna cambiare atteggiamento. Soprattutto i giornalisti dovrebbero smettere di dipingere la Corea del Nord in maniera macchiettistica». Antonio Fiori non parla a caso. Docente all’Università di Bologna è professore aggiunto presso la Korea University di Seoul. È uno degli italiani che conosce meglio il regime di Pyongyang. Insieme ad altri esperti del settore è stato chiamato a Montecitorio per discutere della crisi in corso. Un seminario organizzato ieri dalla commissione Affari Esteri alla presenza di diversi diplomatici e stranamente disertato dai nostri parlamentari.
L’analisi degli equilibri geopolitici nell’area non può prescindere dalla figura del leader nordcoreano. Un dittatore giovane, evidentemente. Aveva solo ventisette anni quando ha preso il posto del padre Kim Jong-il, nel dicembre 2011. Inesperto ma non sprovveduto. «Parliamo di un regime estremamente razionale, che persegue una strategia chiara» insiste Fiori. In Occidente si insiste molto sull’aspetto dinastico, sulla trasmissione del potere all’interno della stessa famiglia. Eppure spesso si pretende di raccontare la Repubblica popolare democratica di Corea con etichette superficiali e inesatte. «È un paese che sfugge a qualsiasi tipo di categorizzazione politica». Un paese povero, sicuramente. Anche se molti ignorano alcuni dettagli tutt’altro che irrilevanti. «Nonostante l’isolamento – spiega ancora Fiori – nell’ultimo biennio la Corea del Nord ha registrato una crescita del Pil con percentuali che vanno dall’1 al 4 per cento».
Paradossalmente oggi la soluzione della crisi potrebbe essere proprio nelle mani di Kim Jong-un. La colpa, a detta di molti, è anche delle precedenti amministrazioni statunitensi. Per troppo tempo si è fatto finta di niente. «La Corea del Nord vuole diventare una potenza nucleare e negoziare un accordo da una posizione di forza – spiega Lamberto Dini – Quindici anni fa era molto più debole, ma non ne abbiamo approfittato»
Sui giornali occidentali si ironizza sul taglio di capelli del leader. Non mancano articoli sulle sue stranezze e le sue passioni, anche alimentari. Sembra, ad esempio, che Kim Jong-un sia un grande bevitore di vino rosso. Chissà se è vero. Intanto a conquistare l’attenzione sono soprattutto gli slogan propagandistici del regime. Proprio ieri la Corea del Nord ha minacciato di “affondare” il Giappone con un attacco nucleare, pronta a ridurre gli Stati Uniti in “cenere e tenebre”. All’alba di stamattina è arrivata puntuale l’ennesima prova di forza. Un altro missile ha sorvolato l’isola di Hokkaido e si è schiantato dopo un tragitto di 3700 chilometri. Di fronte a questi avvertimenti, la tentazione è sempre la stessa. «E invece non abbiamo a che fare con un pazzo» racconta Giampiero Massolo. Oggi il diplomatico è presidente dell’Ispi, l’istituto per gli studi di politica internazionale. Ma nel 2000 – quando il presidente Lamberto Dini aprì un canale diplomatico con la Corea del Nord – faceva parte anche lui della delegazione italiana a Pyongyang. «Quella che abbiamo davanti è una partita a scacchi. Dove tutti gli elementi fanno parte del gioco: le minacce, le sanzioni, le esercitazioni militari». Uno scontro tutt’altro che improvvisato, soprattutto da parte coreana. Semmai l’approssimazione appartiene a certe analisi, a partire da quelle che riducono la vicenda allo scontro tra Kim Jong-un e Donald Trump. Raccontare la crisi nordcoreana come un duello tra eccentrici leader è un’evidente sottovalutazione delle forze e degli interessi in campo.
E invece spesso si va avanti per approssimazione. Altrettanto sbagliato è considerare il regime di Pyongyang succube della potenza cinese. Non tutti lo sanno, ma i rapporti con Pechino sono da tempo in crisi. E se le relazioni tra i due paesi restano significative, Kim Jong-un non è un vassallo di nessuno. Chi lo descrive così ne ignora la storia e la personalità. Del resto l’ascesa del giovane leader coreano è stata caratterizzata da alcune novità poco raccontate. «È un leader che ha dimostrato una certa dissonanza rispetto ai suoi predecessori – spiega Massolo – È stato lui a imprimere un’importante accelerazione al programma nucleare, ma ha anche un’ambizione che gli altri forse non avevano».
Pericoloso, sicuramente. Ma non uno squilibrato privo di visione. Kim Jong-un ha un obiettivo preciso e la sfida nucleare risponde a due precise necessità. La prima è interna: il regime di Pyongyang «si basa su una mobilitazione di massa continua», spiega Fiori. Ecco allora che le continue prove di forza hanno una spiegazione anche in termini di consenso interno, di legittimazione. L’ex presidente del Consiglio Lamberto Dini è d’accordo. Anche lui conosce bene l’argomento. Quando era ministro degli Esteri ha guidato l’Italia – unico paese occidentale – in un significativo dialogo con la Corea del Nord. Almeno prima che gli Stati Uniti chiudessero ogni rapporto con il paese asiatico, inserito insieme a Siria e Iraq nell’“asse del male”. E poi c’è il fronte estero. Ottenere lo status di paese nuclearizzato prometterebbe a Pyongyang di essere considerata al pari delle grandi potenze. «La Corea del Nord considera il suo riconoscimento come una potenza nucleare da parte della comunità internazionale – spiega l’editorialista del Corriere Franco Venturini – l’unico modo per garantire la sicurezza e la durata del regime».
Il dittatore coreano non lascia nulla al caso. Anche nei momenti di maggior tensione, sembra sempre in grado di poter controllare la partita. Conosce i suoi limiti ma anche i suoi vantaggi. Nonostante le continue minacce, ad esempio, è consapevole che per gli Stati Uniti l’opzione militare resta ancora troppo rischiosa
Una strategia tutt’altro che irrazionale. Il giornalista Mario Sechi sottolinea le capacità comunicative di Kim Jong-un. Un dittatore in grado di sorprendere continuamente, prendendo spesso in contropiede i suoi avversari. E così pochi giorni dopo aver minacciato la base americana di Guam, il leader nordcoreano ha autorizzato un lancio missilistico sopra i cieli del Giappone. E ha atteso una delle maggiori esercitazioni militari degli Stati Uniti e dei loro alleati prima dell’ultimo grande test nucleare. «Il gioco di Kim Jong-un è il frutto di una raffinata strategia, forse una lucida follia». Di certo il dittatore coreano non lascia nulla al caso. Anche nei momenti di maggior tensione, sembra sempre in grado di poter controllare la partita. Conosce i suoi limiti ma anche i suoi vantaggi. Nonostante le continue minacce, ad esempio, è consapevole che per gli Stati Uniti l’opzione militare resta ancora troppo rischiosa. Di fronte a un’aggressione, Pyongyang potrebbe rispondere prendendo di mira la Corea del Sud. Il solo utilizzo di armi convenzionali provocherebbe centinaia di migliaia di morti, specialmente nell’area di Seoul. Gli Usa sono pronti ad assumersi la responsabilità di un tale disastro? Ma il dittatore conosce bene anche gli interessi della Cina. Pechino non può guardare con favore l’ipotesi di un attacco militare a Pyongyang. La destabilizzazione del paese avrebbe come prima conseguenza l’esodo di milioni di profughi. E, scenario ancora peggiore, la prospettiva di una riunificazione coreana, magari sotto la regia americana.
E così, mentre prosegue la situazione di stallo, va avanti il programma nucleare nordcoreano. «Paradossalmente – spiega Sechi – oggi la soluzione della crisi è nelle mani di Kim Jong-un. Un giorno il dittatore inviterà tutti al tavolo del dialogo, ma lo farà solo dopo che la Corea sarà diventata una potenza nucleare». La colpa, a detta di molti, è anche delle precedenti amministrazioni statunitensi. Per troppo tempo si è fatto finta di niente. «È chiaro – conferma Lamberto Dini – la Corea del Nord vuole negoziare un accordo da una posizione di forza. Quindici anni fa era molto più debole, ma non ne abbiamo approfittato».