Per far fronte alla sospensione delle attività didattiche nelle scuole bisogna seguire tre possibili direttrici: a) da subito, un rafforzamento del sostegno alle encomiabili iniziative di didattica a distanza che includano un ampio utilizzo del mezzo radiotelevisivo, l’unico in grado di raggiungere tutte le case e quindi in grado di non ampliare le distanze tra regioni e tra famiglie; b) il prossimo anno scolastico dovrà essere più lungo e, nei suoi primi mesi, fortemente focalizzato sul rafforzamento delle competenze pregresse e sul recupero del tempo perduto; c) L’esame di maturità dovrà essere più semplice senza però rinunciare a sottoporre gli studenti alla rilevazione Invalsi, effettuabile in sicurezza anche on line ed adoperabile a totale discrezione (salvo particolari vincoli nel caso di attribuzione del massimo dei voti) da parte degli esaminatori e, in prospettiva, anche dalle Università, in sede di primo screening delle iscrizioni ai futuri corsi universitari.
Forse qualcosa si muove sul primo tema: l’Istat ha reso noti alcuni dati che eloquentemente dimostrano come i requisiti per il ricorso alla didattica a distanza non siano pervasivamente diffusi, con zone di sofferenza ben precise sul territorio e in base alla condizione economica della famiglia d’origine. In positivo, vi è anche stato l’annuncio di alcune iniziative da parte della Rai, anche se francamente è ancora molto poco, molto meno di quanto non stia ad esempio facendo nel Regno Unito la Bbc.
Sul terzo e ultimo tema il dibattito è stato acceso ma evidentemente mi devo esser espresso molto male nella mia proposta pubblicata il 30 marzo sul Corriere della Sera. Qualcuno forse perché ossessionato dal contrastare la meritocrazia, ha visto nella proposta un complotto segreto (si veda quanto scritto sul sito Roars da Latempa e poi ripreso su la rivista il Mulino a firma di Baccini e Latempa).
Il mio punto era in realtà semplice e non occulto: le prove Invalsi in V superiore, svolgibili on line, possono fornire un ausilio e un benchmark nella valutazione che dovrà essere fatta dalle singole commissioni in sede di esame di maturità, non sostituire quest’ultimo. Dare la facoltà alle scuole (non l’obbligo) di usare tali prove non mi sembrerebbe francamente un delitto grave e uno sconvolgimento del sistema. E men che meno mi sembra un delitto grave quello di consentire ai tanti maturandi, che quest’anno ancor più che in passato sono spesso già proiettati sui test di accesso a questo o quel corso di laurea, di avere un assessment gratuito su se stessi con un potenziale valore di orientamento sul cosa fare in futuro.
Né intendo insistere più di tanto sull’idea che il candidato debba aver superato brillantemente il test Invalsi come condizione necessaria, ma non sufficiente, per ottenere la nota di merito del 100 (nota di merito che nessun nemico della meritocrazia mi pare abbia chiesto di abolire, anche perché se si abolisse il 100 vi sarebbe poi il 99 e così via). Se nessuno è spaventato dal possibile proliferare dei 100 alla maturità si lascino pure le cose come stanno e rimandiamo al futuro, come è giusto che sia, una più complessiva riflessione sull’esame di maturità e sul suo ruolo anche per l’accesso all’istruzione universitaria.
Vengo quindi al secondo dei temi che avevo sollevato, per molti aspetti quello più rilevante. Che fare per ovviare ai possibili costi di lungo termine, costi più accentuati per alcuni soggetti (di solito quelli già prima meno favoriti), derivanti dalla attuale emergenza sanitaria? Come attrezzarsi a convivere, per un periodo che potrebbe essere ancora lungo, con le necessità di mantenere un certo grado di distanziamento fisico?
La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha auspicato che il prossimo anno scolastico parta il primo settembre. Si tratta di affermazioni lungimiranti e incoraggianti, che sono però solo il primo passo per fare del prossimo anno scolastico un anno “rafforzato”.
Con ciò non mi riferisco tanto alle subito insorte polemiche sulle rispettive competenze in materia di Stato centrale e Regioni (un tema su cui si spera non si ripeta lo stucchevole teatrino in tema di chiusura o riapertura di questa o quella specifica attività economica andato in onda con la contrapposizione tra ordinanze del Governo centrale e di alcune singole Regioni).
Non mi riferisco neppure al fatto, ovvio ma da ricordare a scanso di equivoci, che un rafforzamento “quantitativo” del prossimo anno scolastico dipende non solo dalla data di avvio ma anche da quella di chiusura, e quindi dalla durata complessiva, delle attività didattiche. Al di là di queste considerazioni, vi sono altri due punti su cui è però necessario riflettere per tempo: le condizioni per riaprire, in sicurezza, le scuole; il focus su cui concentrarsi alla loro riapertura.
Sul primo punto, ha già detto molto Andrea Gavosto, in un intervento il 14 aprile sul Sole 24 ore. Riaprire la scuola in sicurezza può richiedere di farla funzionare su più turni nell’arco della giornata o della settimana (per evitare sovraffollamento nelle aule) e richiede che le singole scuole possano contare su un predefinito pool di insegnanti, senza dover aspettare l’autunno inoltrato per il completamento della solita giostra annuale delle assegnazioni di personale.
L’operatività su più turni, con utilizzo per più ore delle stesse strutture fisiche, potrebbe inoltre richiedere di poter impiegare– in via temporanea (per i mesi fino alla disponibilità d’un vaccino?) e a vario titolo – alcuni insegnanti per più ore (e una più alta retribuzione) e/o un maggior numero di insegnanti. Il personale è auspicabile che sia assegnato per tempo alle singole (magari si potrebbe eliminare per quest’anno la mobilità a richiesta?). Servono quindi risorse finanziarie aggiuntive ma anche e soprattutto il coraggio di innovare alcune delle regole che negli anni hanno portato a una giostra annuale del personale, precario e di ruolo.
In ogni caso, nel quadro d’una ordinata e graduale ripresa delle attività sociali ed economiche, può essere utile distinguere tra scuole materne e primarie, da un lato, e secondarie dall’altro. Bisogna dare alle prima la priorità temporale nella riapertura, sia per consentire ai genitori dei piccoli che le frequentano di svolgere la propria attività lavorativa – in un contesto comunque più complicato del solito, almeno fino a quando non sarà disponibile un vaccino – e sia perché in esse la didattica in presenza è meno facilmente sostituibile con quella a distanza, che invece più facilmente diverrà parte del modus operandi ordinario per i cicli successivi e ancor più per le Università.
Per materne e primarie, potrebbe perciò non essere irragionevole una riapertura, almeno in qualche luogo, anche prima del prossimo settembre (ad esempio in Francia si pensa di riaprirle l’11 maggio e in Danimarca si sta già procedendo in tal senso, immaginando che talune attività possano essere svolte all’aperto per facilitare il mantenimento d’un certo distanziamento fisico).
Se si procedesse in tal senso, la principale tematica da affrontare sarebbe forse quella del come evitare che i nipoti – soggetti a bassissimo rischio a fronte del virus – finiscano con il contagiare i nonni – soggetti invece ad alto rischio. Anche per questo motivo, una articolazione molto flessibile della riapertura delle scuole sarebbe estremamente importante: sul piano degli orari (anche per evitare sovraffollamento nei mezzi di trasporto) e sul piano delle attività (anche per mantenere i legami con chi, per via della situazione legata all’emergenza sanitaria del proprio nucleo familiare, non riesca a essere presente fisicamente).
Sul secondo punto, il concetto da ribadire è che i primi mesi del prossimo anno scolastico dovrebbero essere utilmente focalizzati sul recuperare, in senso sostanziale e non di mero adempimento amministrativo, le conoscenze e le competenze non adeguatamente sviluppate durante l’attuale difficile anno scolastico.
Vi è evidenza del fatto che consolidare le conoscenze pregresse è la strategia educativa più efficace e meglio in grado di innalzare i livelli di apprendimento tanto degli studenti più dotati quanto di quelli più in ritardo (cf ad es. ). Condivido pienamente perciò l’indirizzo espresso dall’associazione Condorcet sul “ripensare la scuola”.
Non si tratta semplicemente di prevedere per alcuni alunni dei corsi di recupero, con tutto il loro fardello di stigma, ma di organizzare –destrutturando il tradizionale gruppo classe – attività mirate per tutti i diversi alunni, tenendo conto dei loro effettivi punti di partenza all’avvio dell’anno scolastico. A ben vedere, sono sperimentazioni utili forse anche per innovare il modus operandi ordinario della scuola.
Al tempo stesso, a partire da quanto si fa in questi giorni, occorrerà fare in modo che didattica in presenza e didattica a distanza siano crescentemente integrate e rese tra loro sinergiche, sfruttandone le loro specifiche caratteristiche, evitando di vederle come meri canali alternativi d’un unico e indifferenziato meccanismo di una passiva trasmissione di nozioni.
In questo scenario, di focus sul recupero (in senso sostanziale e non amministrativo), credo che un ruolo possa esservi per le prove Invalsi, che nei primi anni di ciascun ciclo e sub ciclo (la I media inferiore e i I anni del biennio e del triennio superiore) potrebbero fornire uno strumento di autodiagnosi a benefico delle diverse scuole (alle prove, da predisporre liberamente da parte delle singole scuole, si potrebbe affiancare un’analisi campionaria sul sistema, sempre da svolgere all’avvio del prossimo anno scolastico.
*Paolo Sestito è stato presidente Invalsi dal 2012 al 2013