Le Due Sessioni rivestono un ruolo più cerimoniale che sostanziale, ma rimangono uno degli appuntamenti più importanti del calendario politico cinese e in un anno normale si sarebbero svolte come una parata: quasi 3mila delegati giunti a Pechino da tutta la Cina per tessere le lodi del Partito e sfilare tra piazza Tian an Men e la Grande Sala del Popolo, preferibilmente in condizioni meteorologiche ideali.
Ma le Due Sessioni in edizione 2020 stanno facendo saltare tutti gli schemi: prima, ovviamente, l’epidemia di covid-19, che ha costretto il Partito comunista cinese a rimandare di ben due mesi questo evento gigantesco.
Poi la riduzione degli incontri da due a una settimana e le nuove regole per le assemblee, tutte rigorosamente in mascherina e alcune in videoconferenza.
Infine la tempesta che è infuriata su Pechino ieri, proprio durante l’apertura, con il cielo della capitale buio e carico di lampi minacciosi già alle tre del pomeriggio.
Lo scenario era pronto per un evento senza precedenti, e le premesse non sono state smentite: durante l’avvio delle Due Sessioni il quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post, ha diffuso la notizia di una bozza sulla Legge sulla Sicurezza, la norma che – potenzialmente – ridefinisce alla base gli equilibri tra Pechino e Hong Kong, modifica in un colpo il campo da gioco fissato nel lontano 1984 da Margaret Thatcher e dal primo ministro Zhao Ziyang, e spiana la via a una nuova, incognita, stagione di proteste.
Cosa sta succedendo? Le Due Sessioni si articolano, appunto, in due grandi raduni: se la Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese che ha aperto i lavori ieri raggruppa personaggi in vista come l’attore Jackie Chan o l’ex campione di basket Yao Ming – tutti cooptati dal Partito, tutti incaricati di fornire il loro parere su come migliorare la Cina -, l’Assemblea Nazionale del Popolo iniziata oggi rappresenta il Parlamento.
O meglio, la versione di un parlamento adattata al sistema politico cinese: l’Assemblea si riunisce solo una volta all’anno per ratificare tutte le decisioni prese dal governo, come un foglio di carta carbone, al punto che quando due anni fa il presidente Xi Jinping decise di far saltare il vincolo dei due mandati – spianandosi la strada per una presidenza a vita – votarono contro solo due delegati su 2.958.
Quest’anno, però, il Partito ha deciso improvvisamente di forzare la mano su Hong Kong, e per una pura questione formale la decisione deve essere presentata proprio all’Assemblea: dopo quasi un anno di proteste, scoppiate nel giugno 2019, nelle intenzioni di Pechino l’ex colonia britannica sarà ricondotta alla madrepatria con tutto il peso di una Cina ammaccata dall’epidemia, ma sempre al centro degli equilibri globali.
Il rapporto che lega Pechino a Hong Kong è complesso, sfumato, e rappresentava finora un capolavoro di pragmatismo asiatico. Nel 1984 le trattative in corso tra Regno Unito e Cina per la restituzione della megalopoli si cristallizzano nella formula «Un Paese-Due Sistemi».
Hong Kong ammainerà l’Union Jack nel 1997 (100 anni dopo l’occupazione britannica) e tornerà sotto la giurisdizione cinese, ma allo stesso tempo potrà mantenere una certa autonomia da Pechino: libertà di stampa e di associazione, multipartitismo, un miniparlamento e un sistema giuridico basato sullo stato di diritto, perfino una propria valuta, tutte caratteristiche che la Cina si impegna a garantire a Hong Kong per un cinquantennio, fino al 2047.
Hong Kong diventa la terza piazza finanziaria del mondo dopo New York e Londra, lo snodo asiatico dove si incontrano gli affari della Cina in ascesa e quelli di un Occidente in fase di delocalizzazione degli impianti industriali.
Gli hongkonghesi, che tendono sempre più a rimarcare le loro differenze culturali con i cinesi, iniziano a temere il conto alla rovescia della riunificazione definitiva e le influenze sempre più pressanti di Pechino sulla vita della città.
Quando nel 2003 il governo di Hong Kong cerca di introdurre il famigerato Articolo 23 – il brano della minicostituzione locale che regola la sicurezza interna, e che potrebbe rivedere le libertà personali allineandole con gli standard della Cina – oltre mezzo milione di persone si scatenano e scendono in piazza per protestare: è solo il prologo di quello che abbiamo vissuto nell’ultimo anno, e potrebbe essere ricordato come l’inizio delle vere tensioni tra Hong Kong e Pechino.
La legge presentata ieri davanti all’Assemblea Nazionale del Popolo manda in cortocircuito tutto quello che è avvenuto finora; dopo le proteste sempre più intense – e violente – iniziate lo scorso anno, e vista l’opposizione continuata del fronte pandemocratico all’interno del miniparlamento di Hong Kong, Pechino ha deciso di scavalcarlo promulgando la sua versione dell’Articolo 23, pensata per contrastare «separatismo, influenze straniere e terrorismo» e, allo stesso tempo, per fondere con la forza il sistema giudiziario di Hong Kong a quello della madrepatria.
Se approvata dall’Assemblea Nazionale del Popolo giovedì prossimo, dopo un ulteriore passaggio del tutto scontato la norma potrà essere applicata direttamente dal governo di Hong Kong, senza l’approvazione di quel miniparlamento nel quale ancora si annidano le opposizioni.
«Sono sorpresa, e sono spaventata. La legge, in teoria, dovrebbe bandire il secessionismo e il terrorismo, ma il cuore della questione è che la legge cinese sarà direttamente imposta a Hong Kong e comprometterà le nostre libertà e il nostro sistema giudiziario», dice a Linkiesta Edith Leung, eletta per il Partito Democratico di Hong Kong alle elezioni dello scorso novembre.
«Molta gente, qui, ritiene, che questa sia la fine della formula ‘Un Paese-Due Sistemi’ – prosegue Leung – e tutti hanno iniziato a scaricare sistemi Vpn per aggirare la censura cinese, temono che una volta che la legge sarà applicata sarà loro proibito usare social network internazionali come Facebook o Instagram. I tassi di ricerca sul web delle parole ‘emigrazione’ e ‘procedure di emigrazione’ sono schizzati. Generalmente, direi che siamo depressi, frustrati, spaventati e ci sentiamo sconfitti. Non ci è stata lasciata alcuna possibilità di scelta».
«Si tratta di un procedimento in assoluta violazione della formula ‘Un Paese-Due Sistemi’, e se la Cina può rimangiarsi la parola su una questione come questa ben prima della scadenza del 2047, allora Pechino non merita fiducia», le fa eco Emily Lau, ex parlamentare ed ex presidentessa del Partito Democratico.
«In tutto questo – prosegue Lau – non è ancora chiaro come la Cina intenderà applicare questa legge, quali uffici saranno aperti a Hong Kong e che tipo di funzionari saranno inviati a Hong Kong per esercitare i loro poteri. Di sicuro, non sappiamo neppure se ai tribunali di Hong Kong sarà permesso, ad esempio, di giudicare sui cittadini che hanno protestato, oppure se invece questi casi saranno trasmessi e giudicati in Cina».
Per “Long Hair” Leung, esponente della Lega dei Socialdemocratici, un trotzkista quasi leggendario in città, arrestato e poi rilasciato solo poche settimane fa insieme ad altre figure di spicco dell’opposizione, anche le elezioni fissate per il settembre prossimo non offrono molte speranze, nonostante la vittoria schiacciante dei pandemocratici alle ultime consultazioni locali.
«Penso che continueranno ad arrestare e rilasciare i candidati più forti – racconta Leung a Linkiesta – come parte di una strategia per far fallire le elezioni e questo sarà il primo segnale che l’establishment filo-cinese intende mandare al resto della popolazione di Hong Kong. Siamo provati da undici mesi di proteste, e lo scoppio dell’epidemia vieta qualsiasi raduno superiore alle 8-10 persone. Non è ancora il momento di scendere in piazza».
Sostegno internazionale? Anche su questo fronte, il vecchio protagonista delle manifestazioni è scettico: «Il mondo intero sta soffrendo per la pandemia, forse ci sarà qualche gesto politico, ma non credo che prenderanno le nostre parti in maniera decisa».
«La polizia ha usato varie tattiche per sopprimere le proteste pacifiche – dice Avery Ng, presidente della Lega dei Socialdemocratici che si è sistematicamente dissociato dalle manifestazioni violente di alcuni mesi fa – e per il momento in cui la legge sulla Sicurezza Nazionale sarà davvero approvata temo che a Hong Kong si saranno già verificati arresti di massa su larga scala. L’idea è di far diventare un reato la libertà di espressione e la libertà di parola».
Il 4 giugno, come ogni anno, a Hong Kong si dovrebbe celebrare una veglia per le vittime della strage di Piazza Tian An Men. Ma il 2020 ha già dimostrato tutta la sua imprevedibilità.