Quale ruolo avranno le eccellenze italiane e il made in Italy nella ripartenza dopo la sosta forzata della pandemia? Come e quanto bisognerà reinventarsi? Di questo si è discusso nel corso del terzo appuntamento dei webinar organizzati da The Adecco Group in collaborazione con Linkiesta. Al dibattito, oltre ad Andrea Malacrida, ad di Adecco Italia, hanno partecipato Marina Salamon, imprenditrice e presidente di Doxa, Mauro Porcini, chief designer officer di PepsiCo, Claudio Marenzi, presidente di Confindustria Moda e Pitti Immagine oltre che presidente e ad di Herno, moderati dal direttore de Linkiesta Christian Rocca.
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I dati sono tutt’altro che confortanti. In base a uno studio a campione realizzato da Confindustria Moda, che rappresenta il top delle eccellenze made in Italy, il 90% delle aziende ha chiesto la cassa integrazione sul 70-85% del personale. Nel 51% dei casi, il fatturato ha subito un calo dal 20 al 50%, mentre nel 20% dei casi anche oltre il 50%.
«Serve una prospettiva non focalizzata sulla ripresa immediata, ma sul lungo termine», ha spiegato Mauro Porcini da New York. «L’Italia ha l’opportunità di capire quali sono i suoi punti di forza, a partire dalla creatività e dal design».
Ma il made in Italy, se vuole sopravvivere ora, va reinventato. «Il “made in” sta diventando meno rilevante nel mondo», dice Porcini. E gli esempi dei colossi mondiali ce lo ricordano. La spagnola Inditex non produce in Spagna. Ikea non produce in Svezia. I prodotti Apple sono assemblati in Cina, e solo il design è frutto dell’azienda di Cupertino.
Ma può l’Italia rinunciare all’ecosistema complesso delle sue filiere che hanno reso i prodotti italiani del lusso famosi in tutto il mondo? «Noi italiani siamo “gnomi da fabbrica” con una capacità manifatturiera enorme», risponde Marenzi. «Non possiamo permetterci margini alti a prezzi bassi, come fa il mass market. Il nostro equilibrio è sottile. Ma il lusso non si può fare che in Italia». E «siccome una parte del mondo avrà sempre bisogno dei prodotti del lusso, lì ci saremo noi».
La carta vincente del post-pandemia, secondo Salamon, potrebbe essere ora «mettersi insieme per far crescere le dimensioni delle imprese», laddove invece finora hanno dominato i “campanili” delle piccole aziende a conduzione familiare. E se gli italiani finora sono stati bravi nell’innovazione dei prodotti e meno bravi nell’innovazione dei modelli di business, «occorre ora riprogettare il manifatturiero, altrimenti si perderanno tanti posti di lavoro». E interi pezzi di filiera, con i loro prodotti, potrebbero sparire per sempre.
La prima parola d’ordine, quindi, dovrà essere innovazione. «Bisogna guardare all’Italia con la lente dell’innovatore», dice Porcini. «L’innovazione nasce sempre dalle crisi. Può essere dolorosa, ma forse questo è il momento giusto per cambiare». Un modo per cominciare? «Dare spazio ai ventenni nelle nostre realtà», risponde Salamon.
E poi serviranno formazione e flessibilità contrattuale. «Ci sono 3 milioni di posti di lavoro a rischio», spiega Andrea Malacrida. Prima cosa da fare, secondo l’ad di Adecco Italia: «Sospendiamo la causale introdotta nel 2018 per i rinnovi e le proroghe dei contratti a termine», introducendo una legislazione sul lavoro più moderna e flessibile. Seconda cosa: «Affianchiamo le ore di cassa integrazione con percorsi formativi per adeguare le competenze necessarie per la nuova economia». Mai come oggi e per il prossimo periodo «sarà determinante capire non che occupazione ho ma che “occupabilità” ho». Uno strumento per misurare il proprio indice di occupabilità è proprio la piattaforma “Phyd” di Adecco, con un algoritmo costantemente aggiornato alle evoluzioni del mercato.