Nessuno vuol essere rivalutato da morto. Quelli che ne fantasticano, quelli che citano compiaciuti Van Gogh che finì la propria vita in miseria o Il Gattopardo pubblicato postumo, gente dall’inconscio crudelmente consapevole della scarsezza delle proprie opere. Sanno che da vivi non otterranno mai l’anticipo per una trilogia o anche solo un posto da editorialista a Repubblica, e si consolano pensando: «Quando sarò morto, allora si pentiranno di non avermi apprezzato».
Negli ultimi anni di lettere italiane c’è stata una certa qual costanza nella dinamica dell’appropriazione del cadavere. Una volta era un meccanismo riservato all’adulterio: al funerale, la moglie con cui il defunto non parlava da anni si metteva davanti alla bara a ricevere le condoglianze, e la povera amante che aveva accompagnato gli ultimi anni di vita era relegata in fondo alla chiesa. O addirittura veniva esclusa dai riti funebri, come accadde a Olga Ivinskaya, la Lara di Zivago, quando morì Pasternak e il decesso e il funerale furono territorio della moglie.
La prima recente appropriazione di cadavere che mi viene in mente è di due anni e mezzo fa, e il morto era Alessandro Leogrande, il più bravo (come al grande pubblico hanno detto tutti ma proprio tutti, dopo) a raccontare il più attuale dei temi, cioè le migrazioni.
All’improvviso leggevo ovunque di questo fondamentale intellettuale la cui mancanza non avremmo saputo come colmare, e pensavo fosse una lacuna mia (una delle tante): c’era uno importantissimo che non avevo mai sentito nominare.
Fu una sua amica a svelarmi il trucco, sospirando qualcosa come: «Se invece di straziarsi dopo l’avessero fatto scrivere prima, gli avessero offerto una collaborazione, l’avessero invitato qui o lì».
Era una mia lacuna, certo, ma era anche la dinamica Pasternak: uno stuolo di vedove pronte a buttarsi su un cadavere al quale da vivo non avrebbero risposto al telefono. Sono sempre i migliori che se ne vanno, ma non sarebbe male accorgersi del loro essere migliori prima che se ne vadano.
La vita è sceneggiatrice, diceva Furio Scarpelli, sceneggiatore assieme ad Age di una cospicua parte di storia del cinema italiano (insomma: uno di quelli abbastanza bravi da far notare la loro bravura da vivi). Ci ho ripensato ieri, accorgendomi che oggi escono in contemporanea due libri che riguardano due cadaveri di cui il mondo delle lettere è corso ad appropriarsi.
Tommaso Labranca è morto quattro anni fa. Era uno scrittore; era un autore televisivo; era il più bravo a raccontare il pop; era uno che si chiedeva come avrebbe pagato le bollette il mese dopo.
Sergio Perroni è morto un anno fa. Era il più bravo in quel lavoro impossibile che è tradurre dall’inglese all’italiano; era il più maniacale e amorevole conoscitore della lingua italiana che abbia mai incontrato; era uno scrittore di cui io, che pure gli ero affezionata, non mi ero mai presa il disturbo di leggere un libro.
Erano due di cui, da morti, tutti hanno detto e scritto e pensato: «Avremmo dovuto occuparcene di più da vivi». Erano due di cui, da morti, tutti abbiamo detto e scritto e pensato: «Forse, che quella sua cosa è un capolavoro avrei dovuto lasciarmelo sfuggire prima».
Oggi esce, per La nave di Teseo, “L’infinito di amare”, il romanzo che Perroni consegnò tre giorni prima di spararsi (non era uomo che lasciasse granché al caso). E, per Il Mulino, “Le alternative non esistono”, il libro in cui Claudio Giunta (il Berselli della nostra generazione, nonostante il difetto di non essere emiliano) studia la figura di Tommaso Labranca.
È nel libro di Giunta che credo d’aver trovato la risposta alla questione che sfocia poi nell’appropriazione di cadavere, ovvero perché alcuni diventino editorialisti da prima pagina, o premi Strega, o autori di bestseller, e altri vengano rivalutati da morti.
«Qual è la parola giusta? Controcorrente è quella che si adopera di solito per definire gli intellettuali che stanno fuori dal coro, i censori dei costumi correnti, i difensori delle cause perse. Ma in realtà gli intellettuali di questo genere sono quasi sempre integrati al campo accademico e giornalistico: sono i sedicenti avversari dell’establishment che aspirano a farne parte, e che di solito prima o dopo la spuntano. Labranca non era uno di loro, in nessun modo. Inoltre, i suoi anatemi e le sue ironie non servivano nessuna causa; non aveva cause da difendere, perciò non cercava alleati […] Labranca ha vissuto gran parte della sua vita non confortevolmente contro ma, meno confortevolmente, fuori».
Non l’avevo mai guardata da questa angolazione: se vuoi entrare in squadra, devi essere tifoso. Mi era invece già chiaro l’altro concetto: quelli che si dicono cani sciolti – o schiene dritte, o altre frasi fatte atte a indicare indipendenza intellettuale – assai raramente producono un pensiero originale.
Non trascriverò tutto il libro di Giunta, ma ci sono altri passaggi che mi hanno fatto annuire forte, per esempio quello su Labranca che, diversamente da Houellebecq, non avrebbe mai citato una mezza pagina della “Democrazia in America”, «non perché non conosceva Tocqueville, ma perché i suoi esempi preferiva prenderli dalla vita vera, o dalla tv»; mi sono ricordata di quando “Bianco”, l’ultimo libro di Bret Easton Ellis, è stato stroncato da un intellettuale romano del catalogo Einaudi, con la vibrante accusa d’essere un saggio privo di bibliografia.
Mi sono resa conto che tutti i difetti della “Grande Bellezza” sono perdonabili in cambio dell’aver quel film fatto dire al suo protagonista (un intellettuale napoletano del catalogo Einaudi) la più indicibile delle verità: in Italia, se vuoi essere preso sul serio, devi prenderti sul serio. Insomma, per quanto ci precipitiamo a rivalutare a cadavere ancora caldo quelli che non lo facevano, fatichiamo a credere che un vivente abbia letto più cose di noi se quel vivente non ci dice, a ogni riga, «guarda quante parole difficili so».
Woody Allen conclude la sua recente autobiografia, “A proposito di niente”, con alcune righe che dicono: «Per me è totalmente irrilevante cosa accadrà alle mie opere quando non ci sarò più. Da morto, sospetto che pochissime cose potranno innervosirmi […] Piuttosto che vivere per sempre nei cuori e nelle teste del pubblico, preferisco vivere nel mio appartamento».
Nessuno vuol essere rivalutato da morto, neanche quelli che hanno avuto una vita lunga e piena di soddisfazioni professionali; figuriamoci cosa se ne fa della vostra stima postuma Labranca che, nella sintesi di Giunta, «è stato un autore televisivo di primo piano solo per un breve periodo, e non è mai diventato uno scrittore famoso. I giornali a cui ha collaborato erano quasi tutti giornali di seconda fila. Negli ultimi dieci anni di vita si è arrabattato fra traduzioni, ghostwriting e collaborazioni pagate a pezzo». Potevate pensarci prima. A proposito: cos’aspettate a dare un posto da editorialista, l’anticipo per una trilogia, e pure qualche premio in denaro a Claudio Giunta?