Il cinema italiano dopo SordiNasce prima il calo degli incassi o il lieto fine col trionfo dei buoni?

Nei film non sono più ammessi cattivi impuniti né personaggi meschini come una volta, è diventato eccessivo perfino far morire un pesce rosso: c’è il rischio che qualche animalista indignato piazzi un cancelletto dicendo che così si dà il cattivo esempio

RALPH GATTI / AFP

Scusate il ritardo, ma: e se quest’epoca senza eredi di Alberto Sordi dipendesse da una questione economica? Lo so, lunedì era il centenario della nascita di Sordi, sono tre mesi che ne leggete e non ne potete più (ai giornali piace arrivare in anticipo, hanno già cominciato a celebrare il ventennale della morte di Vittorio Gassman, e mancano ancora due settimane). Ma portate ancora qualche rigo di pazienza.

Stavo rivedendo uno dei suoi film più famosi, “Il prof. dott. Guido Tersilli, primario della clinica Villa Celeste, convenzionata con le mutue” (un titolo con le virgole, già da questo si capisce che erano altri tempi). Il personaggio è lo stesso del “Medico della mutua”, il film in cui avremmo dovuto capire che era un cialtrone interessato solo al denaro dal fatto che i pazienti erano in agenda uno ogni mezz’ora. Visto da cinquantadue anni dopo, quando neanche una visita privata costosa dura mezz’ora, un film di fantascienza. Comunque: nel seguito, Tersilli ha messo su una clinica.

Ora, tra il primo e il secondo film passa un anno. Non è un anno qualunque: è l’anno in cui Sordi fa “Riusciranno i nostri eroi”, “Amore mio aiutami”, e “Nell’anno del Signore”. Sono passati da un bel po’ i tempi in cui i produttori lasciavano che Fellini lo scritturasse per “I vitelloni” solo se lui accettava di non avere il nome sulla locandina, gli anni in cui era considerato respingente al botteghino.

Sordi è un venerato maestro, potrebbe fare qualunque cosa, potrebbe dire come molti divi del secolo successivo: «Non voglio fare un personaggio troppo negativo: mi rovina l’immagine», e invece fa quel che ha fatto per molta parte della sua carriera: un personaggio che è una merda dalla prima all’ultima scena, senza redenzione, senza crescita, senza contrizione nel terzo atto.

Somiglia più a quel che disse Jerry Seinfeld della sitcom degli anni ‘90 di cui era protagonista e autore – «niente abbracci, niente lezioni» – che a quel che disse Katharine Hepburn al commediografo che le doveva scrivere addosso “Scandalo a Filadelfia”: «Falla come me, ma a tre quarti falla ammorbidire».

Se siete di quelli che non sopportano vengano raccontate le trame, smettete di leggere, perché sto per riassumervi le principali nefandezze compiute da Tersilli nel suo secondo film.

Gestisce una clinica privata fregandosene della salute dei pazienti e badando solo ai profitti: i mutuati non li opera neanche se stanno malissimo perché i rimborsi non glielo rendono conveniente, i macchinari costosi li usa solo per curare dei pazienti solventi, risparmia sulle lastre usando materiali scaduti; quando trova un giovane medico promettente, lo fa operare al posto del barone, e mente ai pazienti, e incassa le parcelle del barone; tradisce la moglie. Se lo si guarda da cinquantuno anni dopo, si pensa per tutto il tempo di sapere come andrà a finire. Perderà un paziente, capirà i valori importanti della vita, si redimerà.

Tempo fa uno sceneggiatore mi ha raccontato che, a una riunione col produttore, era stato redarguito perché aveva inserito una scena in cui il pesce nell’acquario di uno dei personaggi veniva cotto. Il pesce non si tocca, aveva vibratamente asserito il produttore, al pesce il pubblico si affeziona. Avevamo scosso la testa dicendoci che signora mia che tempi, che declino, che mondo: il cinema italiano non riesce più a essere crudele neanche coi pesci, oggi Monicelli sarebbe disoccupato.

Oggi, quando mi sono ricordata che Tersilli aveva un lieto fine – lieto per lui, mica per la presunta morale comune – e che d’altra parte Luciano Salce, che l’aveva diretto, era quello di Fantozzi, altro filone in cui non esistevano i buoni, i personaggi erano ognuno una merda a modo suo, ho creduto di capire il problema: in questo secolo non vogliamo che muoia il pesce, figuriamoci se vogliamo i cattivi impuniti.

Ho chiesto a un altro sceneggiatore, uno che sembra avere come suggeritore Katharine Hepburn, e a tre quarti di commedia nera fa redimere i peccatori. Gli ho detto: «E allora “Crimini e misfatti”?» “Crimini e misfatti” è il film di Woody Allen in cui il protagonista fa uccidere l’amante che vuole svelare la loro relazione alla moglie, e resta impunito e continua a prosperare nel lavoro e nel privato. È dell’89, e già il fatto che non mi sia venuto un esempio più recente e italiano è eloquente. La risposta è stata: «Oggi te lo fanno fare solo se sei Nanni Moretti».

Quindi per fare la meschinità e la perfidia senza redenzione, cioè l’intera filmografia di Sordi, bisogna avere tantissimo potere contrattuale, oppure nessuno (cioè: essere coreani).

E infatti Zalone i personaggi li fa tutti orrendi e mai redenti. Certo, mi spiega un produttore: perché incassa cinquanta milioni. Non gli servono i finanziamenti, le film commission, la rava, la fava. Nessuno gli dice: eh ma poi se questo resta impunito mandiamo un messaggio immorale, arriva il Moige, Rutelli (cioè: l’Anica) s’innervosisce, Del Brocco (cioè: RaiCinema) perde il posto.

Quando i soldi li metteva il produttore (come oggi accade quasi solo con Zalone), e voleva vederli rientrare (come oggi eccetera), sperava nello scandalo. Adesso, le fragili produzioni contemporanee si terrorizzano con poco: basta un cancelletto degli animalisti indignati perché hai dato il cattivo esempio facendo al vapore un pesce d’acquario. (Poi arrivano i coreani, che non avranno un’Anica o una Apulia Film Commission, fanno un film di stronzi come una volta, e vincono l’Oscar e tutti gridiamo al capolavoro, come se avessimo scoperto nel 2020 che gli spaghetti vengon più buoni al dente).

Apro a caso il colossale tomo “L’avventurosa storia del cinema italiano”, e trovo un Sordi che racconta la propria filmografia degli anni ‘50: «I maschi italiani erano come li raccontavo io. Le donne si comportavano come volevano gli uomini, questi film piacevano, facevano ridere, perché mostravano dei problemi che pian piano venivano superati, ma che ancora c’erano. La famiglia, il maschio, era il centro di tutto». Richiudo precipitosamente e, timorosa di cancelletti, vado a nascondere il volume in cantina.

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