Il federalismo – in Italia, ma non solo – accende le passioni. E più spesso che no se ne parla con piglio da “tifoseria”. Laddove si scontrano le narrazioni, che si esemplificano in figure come le “formiche”, che abitano il Settentrione, contrapposte alle “cicale”, che vivono nel Meridione. Ultimamente sono sorte delle nuove tifoserie che traggono origine dall’impatto del coronavirus. Si hanno quelli che vogliono centralizzare come in passato, e quelli che vogliono delegare in misura maggiore.
Si potrà mai tentare di smettere di appartenere alle tifoserie, sia vecchie, sia nuove e affrontare queste questioni con distacco? Il libro “L’Italia delle autonomie – Alla prova del covid-19”, con i contributi di Alberto Brambilla, Angelo De Mattia, Claudia Segre, Antonio Felice Uricchio (Guerini e Associati) ci prova. Ed ecco l’argomentazione.
L’Italia è un Paese con una notevole quantità di microimprese che, in un periodo di crisi, sono molto più vulnerabili di quelle medie e grandi. Le microimprese in Italia sono in un numero maggiore di quelle presenti nei Paesi con un’economia confrontabile. Questa caratteristica si è formata nel corso del tempo, e si è mantenuta come per ribadire il proprio radicamento (questo è l’oggetto del primo saggio).
L’Italia mostra delle differenze, fra le aree in cui si suddivide, maggiori di quelle presenti nei Paesi che hanno una dimensione confrontabile con la nostra. La differenza fra il Meridione e il resto del Paese preesisteva alla nascita dello Stato unitario. Questa caratteristica è mantenuta fra alti e bassi nel corso del tempo, a ribadire, proprio come nel caso della numerosità delle microimprese, il peso del radicamento storico (questo è l’oggetto del secondo, terzo, e quinto saggio).
L’Italia, infine, se osservata in termini di velocità del progresso verso la modernità, registra molti ritardi: nella parità fra uomo e donna, nella diffusione delle tecnologie più recenti, nel fondare e condurre le imprese in maniera non tradizionale (questo è l’oggetto del quarto saggio).
Ed eccoci al coronavirus. Nel linguaggio economico è definito come uno “choc simmetrico”, vale a dire un evento che colpisce tutti senza fare distinzioni.
È proprio così, fra Paesi come fra le regioni? Come impatto lo è, ma i Paesi e le regioni sono in partenza in una condizione asimmetrica. Abbiamo dunque un impatto simmetrico in un mondo asimmetrico. Il risultato sono dei percorsi di uscita dalla crisi che non possono essere eguali, ma solo simili.
Per esempio, la Germania ha un debito pubblico sul prodotto interno lordo pari alla metà di quello italiano. I margini di manovra fiscale per fare fronte all’impatto negativo del coronavirus sono quindi molto diversi. La grande diversità nei margini di manovra è ridotta in parte, ma non del tutto, grazie agli interventi in acquisto del debito pubblico dei diversi Paesi, promossi dalla Banca Centrale e con altre iniziative di finanziamento della spesa che affrontino l’emergenza.
La polemica nel periodo del coronavirus vede da una parte i difensori del sistema federale, seppur riformato, e dall’altra gli assertori della concentrazione nello Stato centrale delle funzioni dello Stato sociale, fra le quali primeggia la sanità. Dal momento che il coronavirus è con ogni evidenza un problema sanitario e che la sanità è il maggior campo di intervento delle regioni italiane, la polemica trova un luogo dove concentrarsi.
Se il sistema sanitario, che è a gestione regionale, non ha funzionato come avrebbe dovuto, il suo ritorno in capo allo Stato centrale trova una giustificazione. Giustificazione che, però, si basa sull’assunto non dimostrabile che la sanità gestita centralmente avrebbe funzionato bene nella crisi del coronavirus. Non dimostrabile perché abbiamo da un lato un fatto – come ha funzionato davvero – e dall’altro un’opinione – come avrebbe potuto funzionare.
Se è indimostrabile la miglior conduzione statale nella crisi del coronavirus, resta però aperto il dibattito sulla “clausola di supremazia” dello Stato sulle regioni che si potrebbe applicare in caso di crisi grave (su questo si vedano il terzo e il quinto saggio).
Al di là della vicenda del coronavirus si hanno dei nodi complessi da sciogliere nel campo del regionalismo e più in generale nella struttura amministrativa dell’Italia. Il contributo di alcune regioni alle proprie spese è insufficiente a finanziare le proprie pensioni e il proprio welfare (su questo si veda il secondo saggio).
L’idea retrostante le cinque analisi che compongono il lavoro è il rifiuto della secessione. Rifiuto implicito perché non c’è una analisi di questa opzione. Il lettore troverà delle idee per riformare il sistema vigente. In conclusione, nel libro si teorizza un federalismo riformato e non estremo, un federalismo “gentile”.