Un casino royale, leggere senza accento. Nell’Europa di oggi releghiamo a modernariato le teste coronate: sono un’attrazione turistica redditizia (chiedere agli inglesi) e quando non riempiono le paginate per il gossip, lo fanno regalando scandalo. L’ultima puntata arriva dalla Spagna, abbandonata a inizio agosto dal re emerito Juan Carlos sotto inchiesta per evasione fiscale e riciclaggio, mentre il primo ministro socialista Pedro Sánchez si trova a lottare per salvare la monarchia iberica.
Il Rey è nudo, ma non latitante. Ricostruiamo la telenovela dall’inizio. Juan Carlos sale al trono nel 1975, due giorni dopo la morte del caudillo Francisco Franco, e la Spagna deve anche al giovane monarca la pacifica transizione alla democrazia: firma lui la Costituzione del 1978. Nel 1981 contribuisce, con un discorso televisivo alla nazione, a sventare il golpe Tejero, ordito da frange militari nostalgiche del franchismo per restaurare il regime.
Ora chiudiamo i libri di storia. Avanti veloce. Sulla scia di una serie di scandali – uno su tutti, nel 2012 in pieno dissesto economico, disoccupazione al 25%, dona 65 milioni di euro all’amante – e con la salute pericolante, nel 2014 l’anziano re abdica in favore del figlio Felipe VI, che da allora cerca di distanziare la sua immagine da quella del padre. Lo fa per ragioni politiche e per ricucire l’immagine della real casa, ormai screditata agli occhi dell’opinione pubblica.
A marzo, Felipe rinuncia all’eredità paterna. Poi gli toglie lo stipendio (da 194 mila euro annuali) quando si scopre che magistrati svizzeri indagano sui fondi offshore cui l’ex sovrano potrebbe aver attinto: quello panamense ha ricevuto cento milioni di dollari dall’Arabia Saudita e si intravedono connessioni coi cantieri, appaltati a ditte iberiche, dell’alta velocità Medina-Mecca; l’altro riconduce al cugino Álvaro de Orleans-Borbón via Liechtenstein. È plumbeo il cielo sopra la Zarzuela, il palazzo reale fuori Madrid.
Quei fascicoli lasciano Ginevra e varcano i Pirenei, anche in Spagna si setacciano i conti bancari. Martedì 4 agosto Juan Carlos vola all’estero, ma difficilmente sarebbe finito alla sbarra: beneficia dell’immunità legale, è pur sempre un Borbone. Si sprecano i pronostici giornalistici su dove atterrerà, tra l’altro senza la moglie, la Regina Sofia rimasta in patria: da un magnate dello zucchero nella Repubblica Dominicana o nel vicino Portogallo? No, il buen retiro pare sia in una suite extralusso di Abu Dhabi.
Ma l’esilio – una vacanza, secondo la nostalgia dei quotidiani conservatori – è stato deciso dall’oggi al domani? Non esattamente, per quanto il colpo di testa di un monarca sul finale di partita sia una narrazione da vendere all’estero, ma pure sul piano interno. Come ha ricostruito el País, il ripiegamento oltreconfine è stato concordato a luglio nel corso di un incontro fra Juan Carlos e Felipe. Una triangolazione che ha incluso il capo di governo Sánchez.
La regia traspare nel comunicato, bilanciato nella scelta delle parole: non compaiono mai termini come «esilio», ma neppure «viaggio» o «partenza», il verbo è «spostarsi». Un solo dettaglio va definito, la data. Il 31 luglio, è un venerdì, il premier si trova a San Millán de la Cogolla, La Rioja, per il primo vertice interregionale del post-lockdown. Apre quella conferenza Felipe, reduce dalle Asturie dove ha concluso il tour delle 17 regioni spagnole. Il programma, definito da tempo, viene scompaginato all’ultimo minuto per un colloquio riservato fra Sánchez e il re.
Non è dato sapere di cosa abbiano parlato, ma si può immaginare. Meno di quarantott’ore dopo, Juan Carlos annuncia con una lettera che lascerà il Paese. È immenso il sottotesto politico dell’operazione. Sánchez sapeva. Non servono le stimmate del retroscenista per capire che la sua priorità è stata sottrarre la monarchia in quanto istituzione al pericolo di crollare.
Sul tavolo c’erano tutte le opzioni: incluse rinunciare all’immunità in caso di processo o saldare il debito – non certo monstre per le tasche d’un ex monarca – con l’erario. A 82 anni, con 17 operazioni chirurgiche alle spalle, la mossa comporta rischi sanitari durante la pandemia mondiale. Ma se l’espatrio chiude una faglia all’interno della famiglia regnante, ha aperto una crepa nella coalizione inedita che governa la Spagna da gennaio.
Dell’esecutivo, l’unica a essere al corrente della vicenda era la vicepremier Carmen Calvo. Tradotto: non erano solo i neo-alleati di Unidas Podemos ad essere all’oscuro del piano, ma pure la maggior parte dei ministri socialisti. La formazione di Pablo Iglesias non ha mai rinunciato alla vocazione repubblicana, condivisa dalle sigle minori della sinistra e dai (molti) partiti a trazione regionale.
Da parte sua, il PSOE non molto tempo fa ha votato in Parlamento assieme al centrodestra per affossare una mozione di Podemos che perorava un’indagine sul patrimonio di Juan Carlos, che annovera Ferrari, yachts e un appartamento a Londra che vale 62 milioni di euro donatogli dal sultano dell’Oman. «Giudichiamo le persone, non le istituzioni», è la linea di Sánchez. Iglesias ha condannato come «indegna di un ex capo di stato» la ritirata del re emerito. I separatisti catalani, per bocca di Quim Torra, hanno invocato l’abdicazione di Felipe perché coinvolto nell’affaire.
Stando a un sondaggio online del giornale filomonarchico ABC, il 68% degli spagnoli ritengono che Juan Carlos abbia preso la decisione sbagliata. Una percentuale più alta è stata registrata da una rilevazione analoga di el diario: il 96% degli intervistati ritiene che l’«esilio» sia un errore. Che poi, volendo, ci si arena sulla stessa domanda: le monarchie hanno diritto di cittadinanza nel presente o sono un relitto sfarzoso di un altro secolo?
El presidente del Gobierno, @sanchezcastejon, ha llegado al Palacio de Marivent, en Palma de Mallorca, para celebrar el despacho de trabajo con S.M. el Rey.
Al terminar, Pedro Sánchez comparecerá ante los medios.
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— La Moncloa (@desdelamoncloa) August 12, 2020