Tutti i licenziati del presidenteAlla corte di Trump resta solo Stephen Miller, l’unico inamovibile

In questa amministrazione è difficile sopravvivere più di un anno. Invece il 35enne californiano supervisore della scrittura dei discorsi presidenziali resiste eccome. In un libro uscito ad agosto è descritto come un «fanatico» delle politiche anti migratorie e responsabile del famigerato “ban” contro 7 Paesi

Afp

Le porte girevoli dalla presidenza Trump hanno superato qualsiasi precedente, confermandosi una delle amministrazioni più instabili di sempre. In pochissimi sono arrivati fino in fondo. Oltre a figure di primo piano come il segretario al Tesoro Steven Mnuchin e la segretaria all’istruzione Betsy DeVos resistono ancora i responsabili dei trasporti e dell’agricoltura, rispettivamente Sonny Perdue e Elaine Chao. Ma nell’ufficio del presidente, ovverosia nello staff alle sue dirette dipendenze, questo fenomeno è arrivato a livelli impensabili. Fatto il paragone con The Apprentice, ma forse sarebbe il caso di paragonarlo al mito greco del dio Crono che divora i propri figli.

Difficile sopravvivere più a lungo di un anno nello staff del presidente Trump e anche i consiglieri più longevi alla fine se ne vanno. È successo anche a Kellyanne Conway, che sembrava immune agli scandali nonostante fossero sue alcune uscite lunari in difesa del suo datore di lavoro: come nel 2017, quando affermò che esistevano i «fatti alternativi» per giustificare le affermazioni a proposito del pubblico che assisteva all’inaugurazione presidenziale. O quando, più recentemente, rimproverava gli stati di aver riaperto troppo presto ed essere quindi colpevoli del riacutizzarsi della pandemia da Covid19 sul suolo americano.

Ma adesso, per ragioni familiari, ha lasciato: colpa, o merito, della figlia quindicenne Claudia, che l’ha pubblicamente accusata su Twitter di essere una madre terribile attenta solo ai soldi e alla fama. E ha colpito nel segno, lasciando la posizione per salvare la famiglia insieme al marito George, lui invece repubblicano fondatore del Lincoln Project, un gruppo di antitrumpiani che mira a sconfiggere una volta per tutte il presidente a novembre. Una storia quasi edificante di riconciliazione familiare. 

Un senior advisor però rimane saldamente al suo posto. Non è un politico di lungo corso, né un militare. Non è nemmeno un parente o un affine del presidente. Stiamo parlando di Stephen Miller. Il suo ruolo è quello di consulente sulla politica migratoria e supervisore della scrittura dei testi dei discorsi presidenziali. Classe 1985, Miller proviene dallo stato che più di qualunque altro ha forgiato la cultura conservatrice nell’America odierna, ovverosia la California.

Questo non deve sorprenderci, oggi che invece vediamo il Golden State come il bastione delle politiche progressiste e dove gli elettori registrati con il partito repubblicano sono meno persino degli indipendenti. I tre presidenti californiani eletti nel corso del Novecento erano tutti repubblicani: Herbert Hoover, Richard Nixon e Ronald Reagan. 

Proprio laggiù cresce negli anni ’50 uno strano mix che diventerà poi sentire comune nel partito repubblicano: c’entra la paranoia bianca di chi si è conquistato un certo benessere lavorando e facendo dei sacrifici e vede il proprio status minacciato dalle rivolte orchestrate dalle minoranze etniche e consentite da un eccessivo lassismo di sindaci liberal

Stiamo parlando della cosiddetta frontiera dei suburb, protagonisti di un classico della storiografia sugli anni ’50, Suburban Warriors, della storica Lisa McGirr. Ma c’entra anche la provenienza di molti di questi abitanti dal Profondo Sud e che vedono confermati i loro pregiudizi razziali. Ed è su questo pregiudizio che si forma l’ideologia di Stephen Miller, nei tardi anni ’90, quando inizia a frequentare le superiori. 

E dire che la sua provenienza familiare, discendente di rifugiati ebrei fuggiti dall’impero zarista nel 1903, dovrebbe metterlo al riparo dalla fascinazione per idee prese di peso dal nazionalismo bianco e dalle sue forti venature antisemite. 

Nel libro pubblicato questo mese dal titolo Hatemonger: Stephen Miller, Donald Trump and the White Nationalist Agenda, la giornalista della radio pubblica NPR Jean Guerrero ha cercato di ricostruire chi ha influenzato questa ideologia nel giovane liceale Miller, cresciuto nella cittadina marittima di Santa Monica, a pochi passi da Los Angeles. 

Il background familiare è simile a quello di Donald Trump: anche il padre di Miller è un immobiliarista che ha dovuto affrontare difficoltà finanziarie e per questo ha dovuto cambiare quartiere. Cresce ascoltando commentatori conservatori alla radio come Rush Limbaugh, ovviamente. Ma qualcuno è meno scontato: come Larry Elder, afroamericano conservatore che sostiene l’insussistenza del razzismo sistemico. Anzi, spesso sono le comunità afroamericane a mancare della spinta a migliorarsi. Per Miller è un’Epifania: se lo dice un nero, allora non è un pensiero razzista. 

Al liceo diventa conosciuto come un provocatore: insulta i bidelli afroamericani e cerca di provocare lo scontro, mostrando un’autentica fascinazione per la violenza. Chiama Larry Elder che rimane impressionato dalla proprietà di linguaggio di questo giovane ascoltatore: gli lascia un segmento completamente libero durante il suo programma. 

Negli anni dell’università viene notato da un altro curioso estremista di destra: David Horowitz, anche lui di famiglia ebraica come Miller e in più proveniente dalle fila della New Left e dal movimento per la difesa dei diritti civili. Dai quali mutua il linguaggio, ribaltandolo: i bianchi sono le vere vittime dei liberal, che sono i nuovi razzisti e oppressori. Tutto quanto c’è di buono in America viene dai bianchi e questa cultura è sotto attacco. 

Miller a questo punto viene introdotto da Horowitz al Congresso dopo la sua laurea in scienze politiche: nel 2008 ottiene il suo primo lavoro per la deputata Michele Bachmann come addetto stampa, grazie alla segnalazione di Horowitz. La Bachmann è una campionessa del Tea Party e vede Barack Obama come un pericoloso socialista che può distruggere le libertà economiche degli americani. Per Miller non è abbastanza: passa alle dipendenze di un altro deputato ultraconservatore, John Shadegg, ma anche lui non è abbastanza combattivo sulla difesa della razza bianca. 

A fine 2009 trova quello che fa per lui: il senatore dell’Alabama Jeff Sessions. Sessions non è particolarmente interessato agli interventi pubblici nell’economia o al debito pubblico. Anzi, in certe circostanze si mostra collaborativo con l’amministrazione Obama, votando per la nomina a Procuratore generale di Eric Holder. Ma sulle politiche migratorie è perfetto: i messicani stanno distruggendo la concorrenza per i lavoratori americani e i trattati di libero scambio rendono l’America un deserto industriale. 

Da questa posizione nel 2016 riesce a fare il grande salto: entra nel circolo dei ghostwriter di Donald Trump, che era sceso in campo definendo gli immigrati messicani come “stupratori”. Trova sostegno in un altro membro della campagna di Trump, il direttore ed editore del portale di estrema destra Breitbart Steve Bannon. Ma quando, dopo l’elezione di Trump, Bannon perde il favore del presidente, Miller lo abbandona subito. E non sostiene nemmeno il suo ex mentore Jeff Sessions quando Trump lo silura a inizio 2018 con un tweet dopo averlo insultato per settimane.

A Miller interessa il potere per attuare la sua sinistra ideologia. In Hatemonger si legge che Miller «è un vero ideologo, un fanatico: non è motivato dall’interesse personale come Trump». Quando il presidente entra in carica, non si limita a scrivere il discorso inaugurale. Ma è anche uno dei principali artefici del ban in entrata da sette paesi a maggioranza musulmana ritenuti sponsor del terrorismo. 

Non si limita a questo, alla lotta contro l’immigrazione illegale, vuol limitare anche quella legale, come nel caso dei rifugiati siriani. Ha una «fascinazione per la violenza», racconta Guerrero nel suo libro e le parole incendiarie di Trump sono musica per le sue orecchie. Ha compreso che il presidente ha una vera e propria dipendenza per l’apprezzamento della propria base estremista. Non vuole essere giudicato debole, vuole essere un killer. 

Nella settimana della convention il nome di Miller non figura tra i partecipanti, caso inusuale per un consigliere del suo livello. Ma l’assenza di piattaforma programmatica del partito repubblicano, riassunta nella «fiducia entusiasta» per il presidente e per la «distruzione delle politiche dell’amministrazione Obama-Biden», fa capire come la presenza di Miller sia maggiormente inquietante, avendo di fatto sia il consenso del presidente (solo Peter Navarro in materia di commercio estero ha un’influenza paragonabile) che un potere non controllabile dal Congresso. E che raramente appare in prima persona, ottenendo una scarsa attenzione anche da quei media che sono fortemente critici di Trump e della sua amministrazione.

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