1885-1960Cosa è stato davvero il colonialismo italiano (e perché non si parla di quei 75 anni)

La dominazione in Etiopia, Libia, Eritrea e Somalia non è mai entrata nel dibattito pubblico nazionale. Le serie, i film e i romanzi per capire quegli anni si contano sulle dita di una mano. In tv se ne parla solo per indignarsi contro Montanelli. Eppure quella stagione ci influenza ancora oggi, inconsapevolmente

Mentre il resto dell’Occidente fa i conti col proprio passato coloniale, gli italiani sembrano essersi dimenticati che per 75 anni, dal 1885 al 1960, il loro Paese ha dominato in tempi e modi diversi gli abitanti di quattro Stati africani: Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia. 

Quella stagione iniziata 115 anni fa non è mai entrata davvero nel dibattito pubblico nazionale. Addirittura nel luglio del 2019 il sottosegretario agli Esteri del Movimento Cinque Stelle, Manlio Di Stefano ha scritto su Facebook che «non abbiamo scheletri nell’armadio, non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe su nessuno e non abbiamo messo il cappio al collo di nessuna economia».

Forse Di Stefano pensa che l’Italia non sia un Paese coloniale perché romanzi, film e serie tv su questo tema si contano sulle dita di una mano e quasi sempre si finisce per ricordare solo “Tempo di Uccidere” di Ennio Flaiano, premio Strega nel 1947. 

Negli ultimi anni i mass media quando hanno parlato di colonialismo lo hanno fatto per riportare la notizia della statua di Indro Montanelli a Milano che viene ciclicamente imbrattata perché il giornalista raccontò più volte senza pudore di aver comprato come moglie una 12enne durante la campagna d’invasione fascista in Etiopia nel 1936 e di aver consumato con lei numerosi rapporti.

Una volta spenta la polemica, il colonialismo ritorna nel dimenticatoio e di quel periodo rimane solo qua e là qualche lontana eco nelle nostre vie – come la Piazza dei Cinquecento a Roma dedicata ai soldati italiani caduti nella battaglia del 1887 a Dogali, in Eritrea – o in alcuni modi di dire: «è stato un Ambaradan», come la cruenta battaglia del 1936 sull’altopiano dell’Amba Aradam in Etiopia dove le truppe mercenarie locali passarono più volte da una fazione all’altra a seconda della cifra offerta, generando confusione nel nostro esercito. 

Nel misero dibattito social all’interno dei pochi  gruppi e pagine di Facebook dedicate al colonialismo si affrontano due convinzioni stereotipate su quel periodo: o gli italiani erano brava gente che hanno portato la civiltà e le strade in Africa  ma non hanno potuto compiere l’opera perché hanno perso la seconda mondiale, oppure hanno compiuto solo crimini di guerra trucidando e seviziando i civili senza pietà durante tutto il loro dominio.

Come sempre nella storia, la situazione era un po’ più complessa. «Di questo periodo si è parlato poco in Italia anche perché l’anti colonialismo si era indebolito dopo 20 anni di fascismo. Negli altri Paesi liberali invece il dibattito era forte e si poteva raccontare ciò che succedeva nelle colonie anche con occhio critico. Per esempio la Francia si è spaccata intorno all’Algeria, nel Regno Unito c’è stato un enorme dibattito intorno all’indipendenza dell’India nel 1947», spiega il professor Nicola Labanca, uno dei più importanti storici di quel periodo, autore di libri come Storia dell’espansione coloniale italiana (Il Mulino). «Non si può paragonare il colonialismo francese e britannico con quello italiano. Il nostro è stato una piccola cosa rispetto anche ai grandi imperi spagnoli e portoghesi. Una piccola cosa che produceva piccoli guadagni che interessava una piccola parte del Paese e quindi come una piccola cosa è anche ragionevole che se ne parli meno». 

La prima fase del colonialismo italiano
Questa “piccola” storia coloniale italiana si può dividere in due fasi: la prima espansione fu voluta dal leader della Sinistra storica Agostino Depretis che nel 1885 con l’assenso del Regno Unito fece controllare alle navi italiane due porti sul Mar Rosso: quello di Massau e quello di Assab, nell’odierna Eritrea, per avere due avamposti vicini al canale di Suez. Dal 1885 fino agli anni ‘20 altri presidenti del Consiglio del Regno d’Italia come Francesco Crispi e Giovanni Giolitti guidarono una serie di spedizioni, alcune fortunate, altre molto meno per colonizzare due Stati nell’Africa Orientale, l’Eritrea e la Somalia, e uno nel Magreb, la Libia, conquistata dopo una guerra contro l’Impero Ottomano, nel 1912.

Le lobby che favorirono economicamente l’espansione coloniale italiana  giustificarono la conquista dell’Eritrea e della Somalia col bisogno del nostro Paese di dare uno sbocco ai poveri contadini italiani, ma in realtà furono poche migliaia i cittadini coinvolti. Perlopiù a sbarcare in Africa furono funzionari statali, militari, qualche missionario e sparuti grandi imprenditori agricoli. Pochissimi italiani emigrano in colonia per cercare fortuna. «I flussi migratori non seguono la bandiera, ma l’opportunità di lavoro e di miglioramento della propria condizione di vita. Gli emigranti italiani questa speranza la trovano nell’America del Nord e del Sud, in Francia. Anzi, paradossalmente preferirono emigrare nelle colonie africane delle altre potenze europee piuttosto che andare in quelle italiane», spiega lo storico Emanuele Ertola, autore di “In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero” (Laterza).

Sono poche migliaia quindi  i civili che vissero in Eritrea o in Libia, ancora meno quelli in Somalia. Questo perché soprattutto nei primi decenni della presenza italiana in Africa, le colonie erano un posto inospitale. «L’Eritrea non offriva grandi terre da coltivare perché era piccola e povera. Inoltre l’espropriazione di massa dei terreni doveva essere mediata dall’esigenza di mantenere un certo equilibrio politico. Anche la Somalia offriva pochissime opportunità di lavoro perché era simile alle classiche colonie di sfruttamento commerciale britanniche o francesi dell’Africa occidentale dove c’erano solo poche grandi aziende presenti per sfruttare le risorse naturali», spiega Ertola «In Libia la situazione era ancora più impraticabile perché gli italiani avevano conquistato formalmente il Paese nel 1912 ma in pratica fino agli anni ‘30 rimasero confinati nella fascia costiera e nei principali centri urbani, senza mai addentrarsi all’interno». 

Il Codice Zanardelli per punire gli italiani, le frustrate per i coloni.
In Italia si sa pochissimo di come si comportarono i nostri connazionali nelle colonie con la popolazione locale. Tra fine Ottocento e inizio Novecento si dibatté su come regolare dal punto di vista penale i sudditi. Alla fine prevalse l’idea che per gli italiani dovesse valere il codice penale Zanardelli del 1889, mentre per gli africani bisognasse adeguarsi agli usi e costumi indigeni e seguire le loro regole. «I funzionari italiani dell’epoca non erano propriamente dei fini antropologi, tranne rari casi, per questo il tutto si risolse in un bieco equivoco sui presunti costumi locali totalmente funzionale a giustificare comportamenti dominanti e abusi, come la reintroduzione per i sudditi locali delle pene corporali, le frustate in molti casi», spiega Ertola.

Così come esistono numerose sentenze dei tribunali italiani nelle colonie in cui si riportano i casi di nostri connazionali processati perché avevano abusato di dodicenni e tredicenni, ma poi assolti perché secondo “le usanze locali” le bambine di quell’età erano già pronte per il matrimonio. «Qui sta l’ipocrisia di fondo perché se all’epoca un italiano avesse stuprato una bambina di 12 anni in Italia in carcere ci sarebbe andato eccome, ma con la scusa dell’usanza locale si chiudeva un occhio», chiarisce Ertola. 

Fu impossibile il formarsi di un’élite istruita locale nelle quattro colonie perché i governi italiani non permisero mai che i sudditi indigeni frequentassero oltre la quarta elementare. Era considerato rischioso creare una possibile opposizione interna istruita che avrebbe potuto col tempo alimentare un sentimento anti coloniale. Ma dietro c’era una ragione ancora più banale: le colonie dovevano essere popolate da milioni di italiani nelle posizioni dirigenziali. Per i sudditi africani l’unica prospettiva di vita era l’impiego come bassa manodopera.

«Da piccola e adolescente ero molto consapevole di cosa fosse il colonialismo. Me lo raccontava mio padre, che oggi non c’è più. Sognava di fare l’astronomo e a scuola in Somalia, vestito da Balilla, cantava le canzoni coloniali, ma dopo la quarta elementare gli è stato impedito di studiare. Ostacolare l’apprendimento di intere generazioni è stato uno dei crimini peggiori del colonialismo», racconta Igiaba Scego, una delle più importanti scrittrici italiane, di origine somala, in libreria col suo ultimo romanzo “La linea del colore”, (Bompiani). 

«Non bisogna fare semplificazioni giornalistiche e chiedersi sempre quanto hanno pesato queste pagine oscure nell’insieme della storia coloniale. Furono una parte importante ma non costituirono affatto la dimensione centrale. Il ricordo morboso e militante solo di alcuni aspetti rischia di deformare la complessità dell’esperienza coloniale che ormai è finita non solo in Italia, ma in tutto il mondo», chiarisce Labanca. «Non lo dico certo per ridimensionare il fenomeno, perché c’è chi vuole farlo, ma per collocare nel contesto una lunga storia che va dal 1415 alla seconda metà del Novecento, dentro cui ci sono anche queste pagine oscure.  Bisogna far riemergere e ricordare tutta la realtà, che non è positiva o negativa ma è complessa da capire e soprattutto lontanissima dalla nostra sensibilità»

Il colonialismo (non) insegnato a scuola
Il problema è che per gli italiani è molto difficile arrivare a questo giudizio razionale e sofisticato della storia visto che mancano proprio le informazioni minime nel dibattito pubblico per farsi un’idea di cosa sia stato il nostro colonialismo. Soprattutto a scuola, dove si è iniziato a parlarne in modo critico solo negli ultimi anni anche grazie a una giovane generazione di scrittori che hanno affrontato il tema. «Da anni si ripete questa storia che il colonialismo italiano non è studiato scuola. In realtà questo era vero ai miei tempi, negli anni ’90. All’epoca effettivamente c’era una sola paginetta», racconta Scego.

«Ora si comincia a parlarne, ma purtroppo il merito non è tanto dei programmi scolastici, quanto dello straordinario lavoro del corpo insegnante che quasi in anarchia ha cominciato a parlare di colonialismo in classe facendo circolare i libri su questo tema scritti da me e altri autori come Gabriella Ghermandi, Francesca Melandri, Antar Marincola, il collettivo Wu Ming 2».

Secondo Scego c’è una grande differenza tra lo studio che si fa alle medie e alle superiori. «Nel tempo ho notato che nei manuali delle medie c’è uno sforzo importante per far studiare la storia d’Italia a livello globale, senza vedere il nostro Paese come un’isola sperduta, ma come una penisola che si trova tra Africa ed Europa, e il colonialismo si studia in modo approfondito anche con le foto. Invece i manuali delle scuole superiori sono rimasti ancorati a una vecchia idea di didattica, sono molto ingessati, c’è poco spazio per l’alterità e per la storia coloniale», spiega Scego

La scrittrice è nata a Roma nel 1974 dove tuttora vive, i suoi genitori arrivarono in Italia dopo essere fuggiti alla dittatura di Mohammed Siad Barre, presidente e dittatore della Somalia dal 1969 al 1991. «La cosa che a me ha fatto male per parecchio tempo è che io ero figlia di somali, sapevo cos’era stato il colonialismo anche perché mio il nonno era stato interprete di Rodolfo Graziani, ma intorno a me tutti lo ignoravano».

Negli anni’90 alle superiori nessuna conosceva questo passato italiano. E forse ancora oggi. «Non ne parlavano professori, né i compagni di classe. Mi ha sempre colpito la mancanza di un racconto popolare sul colonialismo. L’assurdità è che non esistono nemmeno film elegiaci sul colonialismo. Forse negli Stati Uniti trarranno un film da “The Shadow King”, lo straordinario libro epico di Maaza Mengiste sulla resistenza delle donne etiopi durante il fascismo. Perché non raccontiamo anche noi al cinema le storie di quella stagione?».

La deportazione di centomila libici negli anni ’30
In realtà esiste un film che parla del colonialismo italiano, ma non è stato prodotto nel nostro Paese. Si tratta de “Il leone del deserto” del 1981 che racconta la storia di Omar al-Mukhtār il guerrigliero libico che guidò la resistenza anticoloniale contro gli italiani negli anni venti ed è considerato in Libia un eroe nazionale.

In Italia il film libico è stato censurato per anni e solo nel 2009 è stato trasmesso per la prima volta nel nostro Paese. Forse anche per questo motivo pochi ricordano che tra il 1929 e il 1930 il Maresciallo Pietro Badoglio e il generale Rodolfo Graziani ebbero l’incarico da Benito Mussolini di “pacificare” le due zone della colonia ancora non dominate: il Fezzan e la Cirenaica. Tradotto: i due militari ebbero il via libera per sterminare brutalmente la resistenza armata libica spopolando intere regioni.

Come riporta lo storico Angelo Del Boca, per togliere sostegno alla ribellione anti italiana centomila abitanti che abitavano nelle oasi dell’altopiano di Gebel el-Achdar furono deportati in massa dalla Cirenaica in 13 campi di concentramento nella zona sabbiosa e inospitale della Sirtica. In gran parte erano donne anziani e bambini. Tra esecuzioni sommarie per chi si attardava lungo il tragitto forzato di mille chilometri e la mancanza di cibo e acqua a sufficienza portò alla morte di 50mila deportati, la metà.

Questa non è stata la prima deportazione attuata dal governo italiano in Libia. La prima di massa fu nel 1912 quando migliaia di ribelli libici considerati pericolosi furono trasferiti in modo coatto in vari centri di detenzione nelle isole del nostro Paese: le Tremiti, Ustica, Ponza, Ventotene. Lì morirono in molti ammassati in luoghi malsani inadatti a ospitare grandi quantità di persone, un sovraffollamento simile ai centri di identificazione ed espulsione dei migranti di oggi. 

La conquista dell’Etiopia
Delle quattro colonie, quella che gli italiani conoscono di più è l’Etiopia, anche solo per il fatto che la sua conquista che si svolse tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936, rappresenta l’apogeo del Fascismo nei manuali di scuola. Mussolini volle conquistare l’unico stato africano libero dalla dominazione coloniale perché alla fine dell’Ottocento aveva resistito senza troppo patire alle incursioni italiane sconfiggendo l’esercito tricolore in numerose battaglie compresa la disfatta di Adua del 1º marzo 1896. Quella sconfitta fu usata prima dalla retorica nazionalista per spingere il governo a conquistare la Libia 1912 e poi dalla propaganda fascista per convincere gli italiani della necessità di riscattare l’onta subita contro l’esercito del Negus, così era chiamato il re dell’Etiopia

Fu una impresa gigantesca dal punto di vista umano e logistico. Fu una guerra all’avanguardia per essere il 1935 perché il regime fascista usò tutta la tecnologia più avanzata dell’epoca: carri armati, aviazione militare, bombardamenti di cui una piccola parte col gas nervino. «Nessuna invasione britannica, francese o portoghese in Africa ha mai visto mezzo milione di soldati impiegati contemporaneamente come nel caso dell’invasione dell’Etiopia, dove c’erano 500.000 italiani al fronte. Le guerre coloniali classiche di solito erano piccoli conflitti che vedevano partecipare per lo più un piccolo contingente europeo associato a un più nutrito cerchie di truppe indigene», spiega Ertola.

Mussolini aveva bisogno di una vittoria definitiva, netta e lampante agli occhi dell’opinione pubblica. Per poter dispiegare una tale potenza di fuoco era necessario anche costruire strade, infrastrutture ponti per far marciare le truppe. E una volta conquistata l’Etiopia bisognava poterla colonizzare facilmente. Per questo il regime fece trasferire in Africa Orientale Italiana (Eritrea-Etiopia-Somalia) tra il 1935 e il 1941 circa 200.000 operai italiani una cifra veramente ragguardevole.

In gran parte erano braccianti disoccupati delle regioni del Meridione e del Nord-Est in gran o borghesi arruolatisi spontaneamente nella Milizia Volontaria per la sicurezza nazionale decisero di far fortuna nel nuovo impero. Tutti però si tennero ben lontano dal pericoloso entroterra. Si stanziarono nei quattro cinque centri urbani principali, dove si trovava il 90 per cento della comunità italiana in Africa Orientale. Svolgevano  i mestieri tipici del piccolo centro urbano: negozianti, albergatori, ristoratori, locandieri, meccanici, camionisti. Mestieri per lo più di servizio degli altri italiani. 

L’emergenza erotica
Se sono pochi gli italiani che ricordano delle colonie solo l’invasione dell’Etiopia, ancora meno sono quelli che hanno idea di cosa fecero gli italiani in Africa Orientale dopo la conquista del 1936. Nei mesi successivi nelle colonie arrivarono decine di migliaia di italiani, al 99% uomini che arrivati soli o liberi dalle compagne lontane in Italia occuparono stabilmente i bordelli locali, frequentando le prostitute indigene. «I resoconti d’archivio definiscono questo arrivo di massa una “emergenza erotica” perché gli italiani adottarono comportamenti inappropriati per il regime che mal si sposavano con il progetto mussoliniano di creare una società coloniale razzialmente pura»

Il tipo di unione mista più frequente era il cosiddetto madamato cioè la convivenza con una concubina africana in more uxorio. La separazione razziale auspicata dal regime era inoltre solo virtuale poiché la costruzione degli ipotetici “quartieri per soli bianchi” progettati dal piano regolatore fascista fu lentissima e soprattutto incapace di sostenere la crescente. domanda. Non c’erano case per tutti e per questo moltissimi italiani, soprattutto gli umili lavoratori, andarono a vivere nelle capanne pagando gli affitti agli indigeni.

Da Faccetta nera a Faccetta bianca e le leggi razziali del 1937
Non a caso l’inno dei coloni italiani dell’epoca diventa Faccetta Nera. «È una canzone che rappresenta la sessualizzazione dell’impresa coloniale. Allo sguardo europeo la donna colonizzata appariva come poco più che un animale e una donna dai costumi facili disponibile e sottomessa, molto diversa dalla donna europea», spiega Ertola. «Ma a un certo punto, dopo il 1935 il regime iniziò a guardare con sospetto Faccetta Nera perché considerava inaccettabile l’aumento considerevole dei figli italo-africani che a lungo andare avrebbero alterato l’ordine sociale e razziale che richiedeva netta separazione e tra dominatori e dominati».

Ecco perché il regime fece circolare una nuova versione della canzone, con la stessa metrica e musica, ma parole diverse. Il titolo era “Faccetta bianca” e il testo leggermente modificato faceva: «Non voglio più cantar faccetta nera / non voglio più sentir bella abissina / perché la donna nostra è più carina / e piena d’ogni pregio e qualità». E proseguiva con versi quali: «Faccetta nera per carità!… / solo la bianca è la regina di beltà».

La canzone fu pubblicata la prima volta su un opuscolo per operai italiani in partenza per l’AOI a cura della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, intitolato “Orgoglio di popolo nel clima dell’Impero”, in cui si catechizzavano gli operai sui danni degli «incroci umani» sia a livello sociale che biologico, per poi arrivare al punto: «le donne bisogna lasciarle stare». Come? «innanzi tutto, soffocare gli istinti bruti […] ascoltando la voce gagliarda della propria anima italiana, lasciandone libero il senso di superiorità e di orgoglio che duemila anni di storia e i fatti recentissimi alimentano». L’opuscolo cercava di fare appello al rispetto della «moralità delle donne indigene» la cui dignità doveva essere salvaguardata, tentando allo stesso tempo di spaventare i bianchi con lo spauracchio delle malattie veneree.

Nel 1937, un anno prima delle leggi contro gli ebrei, il governo italiano promulgo le leggi razziali per evitare il madamismo e gli incontri promiscui coi sudditi delle colonie africane. «Il regime cercò anche di “importare” in Etiopia delle prostitute bianche italiane, oppure convincendo in maniera più o meno spontanea, moltissime impiegate del Ministero delle Colonie ad andare a vivere a lavorare nelle colonie in modo si popolassero di giovane italiane nubili».

L’eredità del colonialismo italiano dopo la seconda guerra mondiale
Dopo aver perso la seconda guerra mondiale, i governi italiani ormai democratici e fecero di tutto per mantenere un ruolo nell’ex colonia e chiese a gran voce alle Nazioni Unite prima la restituzione di tutte le colonie pre fasciste, Etiopia esclusa. Quando capirono che la restituzione non sarebbe mai avvenuta i governi italiani chiesero l’amministrazione fiduciaria, una sorta di amministrazione a tempo determinato che doveva servire ad accompagnare i paesi verso l’indipendenza. Gli venne negata in Eritrea e in Libia ma gli fu invece ma affidata in Somalia dal 1950 al 1960.

«L’Italia poco dopo lo scoppio della guerra civile somala (1991-2000, ndr) ha abbandonato la Somalia e non ha voluto saperne. Ed è triste perché è stata così presente nella vita dei somali fino agli anni ’90», spiega Scego «I documenti erano scritti in italiano, c’erano numerose scuole, soprattutto religiose, dove si insegnava l’italiano. Anche la musica leggera era presente. C’era un hotel che chiudeva le serate con “Ciao” di Pupo. Poi l’Italia se n’è andata di colpo e ha deciso di spezzare il suo legame con la Somalia. Ormai i ragazzi somali parlano inglese e arabo e nemmeno sanno che un tempo il loro Paese è stata una colonia italiana. Una mia amica dice provocatoriamente che l’Italia dovrebbe rimettere a posto i suoi edifici coloniali perché è comunque un modo per riallacciare un legame col passato».

Uno dei motivi per cui in Italia non c’è stata fin da subito una rilettura della storia coloniale è dovuto al fatto che erano rimasti nei quadri dirigenziali la gran parte dei funzionari che avevano operato durante il fascismo. «La grande opera.storica di ricostruzione del passato coloniale italiano sulla base dei documenti d’archivio venne pubblicata proprio in quegli anni dal ministero dell’Africa italiana. Si chiamava “l’Italia in Africa”, ma u affidata ac ex funzionari del ministero delle Colonie. Sarebbe stato difficile da parte loro dare subito una lettura critica del fenomeno», spiega Ertola.

Non ha senso rispondere alla domanda se gli italiani siano stati “brava gente” o se abbiano compiuto solo nefandezze. Ma cosa è rimasto nella memoria delle popolazioni africane colonizzate dagli italiani? «Il giudizio cambia spesso anche a seconda delle situazioni vissute. Un giovane etiope che dal 19 al 21 febbraio del 1937 ha visto massacrata tutta la famiglia dopo la strage di Addis Abeba avrà una visione negativa. Quel massacro fu una risposta al tentativo fallito di attentato contro il generale Rodolfo Graziani», spiega Ertola.

Ma ci sono anche altri aspetti dell’eredità italiana. Per esempio l’Eritrea non esisteva prima che l’Italia la creasse. Era una porzione di Africa orientale, fin dall’antichità più o meno sotto l’influenza dell’impero etiopico. E quando gli italiani se ne sono andati dopo la seconda guerra mondiale l’Eritrea è stata assegnata dalle Nazioni Unite all’Etiopia. «I nazionalisti eritrei hanno visto questo come atto assurdamente coloniale, basando le proprie rivendicazioni nazionaliste proprio sulla base della presenza italiana e percependo se stessi come diversi e per certi aspetti più ‘avanzati’ rispetto ai vicini etiopii, proprio perché da loro c’erano stati settant’anni di presenza del nostro Paese», conclude Ertola.

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