C’era una volta l’emeroteca, la sezione che in ogni biblioteca conteneva le annate dei giornali quotidiani e dei periodici. L’etimologia del termine è greca, tá eméra – il giorno corrente, e divenne parte del titolo della più nota opera di Esiodo “Erga kái emérai” (Le opere e i giorni) un poema in esametri collocabile nell’VIII secolo a. C. dedicato alla quotidiana cura delle colture agricole. Più facilmente la rintracciamo nell’opera di Giovanni Boccaccio “Decameron”, il racconto di dieci giornate trascorse nella campagna toscana da una allegra brigata di fantasiosi giovanetti, in un lontano lockdown.
Per gli squattrinati studenti, l’emeroteca fu, fino all’avvento della televisione prima e di internet poi, l’unico modo di leggere più giornali, in una personalissima rassegna stampa che gli insegnanti indicavano come la strada maestra per costruire una propria opinione autonoma sugli accadimenti contemporanei.
Tra i vantaggi dell’emeroteca c’erano l’assenza di un commentatore che inevitabilmente avrebbe influenzato la consultazione e la fisicità della carta stampata che permetteva al lettore di scorrere le pagine delle annate raccolte in volume, spesso inumidendo il dito indice per sfogliare quelle più resistenti al tatto; un gesto che, Covid-19 a parte, poteva anche costare la vita, anche se non si ricordano vittime, tranne quelle che costellano la trama de “Il Nome della Rosa”.
Un ulteriore ma esiziale elemento di utilità era la possibilità di percorrere le cronache del recente passato, andando indietro tra quelle pagine dall’odore inconfondibile di carta stampata che per qualcuno si sarebbe talmente insinuato nella memoria olfattiva al punto da indicare la via verso una vocazione professionale.
Nel volgere di alcune ore e con quella fatica intellettuale che forma il pensiero critico, era possibile mettere a confronto fatti, avvenimenti, dichiarazioni, posizioni politiche e culturali, ricostruire l’evoluzione di storie, di biografie e di iniziative, risalire all’origine di fenomeni economici e sociali fin dalla loro prima manifestazione pubblica.
Tutto restava lì, nero su bianco, incancellabile da un crash della rete, da défaillance della memoria di un dispositivo e persino dalla più o meno momentanea indisponibilità di energia elettrica, prontamente sostituita, nel caso, da candele. Ciascuna pagina, anche redatta dal più mediocre tra gli scribacchini sembrava proclamare con Orazio “Exegi monumentum aere perennius” dove aere sta per bronzo. E come bronzo risuonava nei decenni perché il racconto delle “opere e dei giorni” non venisse tradito nella perenne recita della commedia umana dei pentimenti, delle ritrattazioni e dei voltafaccia confidenti nella poca memoria tramandata tra generazioni di cittadini.
Quanti volessero ancora oggi avventurarsi tra quelle pagine, spesso passate alla microfilmatura o a una lentissima digitalizzazione di tutt’altro effetto, troverebbero un sito archeologico da cui estrarre il sublimato del carattere nazionale. Tra i reperti di maggior pregio spiccherebbero due installazioni permanenti che si alternano nelle cronache: la colonna infame e l’albero della cuccagna.
Fin qui nulla quaestio, tenuto conto che in ogni luogo abitato del mondo si crocifiggono i colpevoli e si adorano i portatori di doni, magari dimenticando l’ammonimento che Virgilio fa pronunciare a Laocoonte “Timeo Danaos e dona ferentes” e che costituisce l’antefatto ingannevole del proditorio incendio di Troia.
Il problema sorge quando a essere protagonisti a turni alternati di entrambe le installazioni sono, a distanza di pochi mesi, i medesimi personaggi. Con Don Lisander che in tante circostanze ci ha accompagnato in questi mesi di pandemia, potremmo ricordare i versi de Il cinque maggio: “Tutto Ei provò: la gloria, maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, il tristo esiglio, due volte nella polvere, due volte sull’altar”. Volubilità dei popoli, estrema smemoratezza degli individui, eterna fragilità della natura umana sempre in cerca di colpevoli e di protettori o consumata capacità di trasformare apparentemente se stessi, rimanendo quelli di prima?
Nel 1964, un’Italia ancora avvinta come l’edera alla prima rete Rai, correttamente ricevuta in ogni parte del paese a differenza del “secondo canale” nato solo tre anni prima, rimase incollata per otto domeniche allo schermo televisivo che proponeva lo sceneggiato serale “I grandi camaleonti” diretto da Edmo Fenoglio su sceneggiatura del drammaturgo Federico Zardi e tratto dal suo testo teatrale “I Giacobini” già messo in scena da Giorgio Strehler nel 1957 (reperibile nelle Teche Rai).
La ricerca vale la pena, il cast è stellare e, tra tanti giganti della televisione italiana, comprende anche un venticinquenne Gigi Proietti. Il grande Aldo Grasso lo recensì così: «i giochi di potere, la meschinità, gli arrivismi sono ben descritti da Zardi ed eccellentemente interpretati dagli attori diretti da Fenoglio». Altro che House of Cards!
Un immenso Raoul Grassilli vi interpreta la parte di Joseph Fouché, il potentissimo ministro della polizia sotto Napoleone Bonaparte, che aveva attraversato indenne la storia di Francia dalla Rivoluzione del 1789 al Congresso di Vienna, dove tutti i regnanti europei, tranne quello a cui egli aveva contribuito, ventidue anni prima, a far tagliare la testa, stabilirono il nuovo ordine assolutistico che avrebbe retto il Continente per mezzo secolo.
Tra i grandi camaleonti ebbe buona compagnia in Barras, Talleyrand e nello stesso Napoleone, nati rivoluzionari e morti oligarchi o tiranni. Tuttavia mal gliene incolse perché pochi anni dopo venne bandito dalle corti europee proprio per il regicidio di Luigi XVI e morì esule a Trieste. Fu l’unica sconfitta subita in vita ma la Francia ne reclamò le spoglie. Colonna infame dunque, ma solo dopo una cospicua permanenza sull’albero della cuccagna. Nel Belpaese la storia del trasformismo è troppo lunga e nota per annoiare il lettore che, forse, sarà più interessato alla dinamica che ne ha regolato sino a oggi, e temo anche domani, lo sviluppo.
Il passaggio, spesso repentino, dalla colonna infame all’albero della cuccagna conosce tre fasi. La prima è senza dubbio l’accurata revisione del proprio passato; può realizzarsi nella manipolazione di un curriculum, nella rivendicazione delle proprie modeste origini che ne fanno “uno di noi”, nella denuncia di fatti anche recenti nei quali il protagonista proclama di essere stato coinvolto in buona fede, nell’apparente e ipocrita manifestazione della propria verginità politica rispetto alle ideologie che inevitabilmente dividono. La parola d’ordine in questa fase è “buon senso” ed egli ne fa un mantra volto a narcotizzare le coscienze più battagliere e le memorie più labili. Segue un ulteriore passaggio che potremmo definire “disponibilità”. In Sicilia diremmo: «si mette a disposizione».
In nome del summenzionato “buon senso” egli si rende disponibile, con chiunque ci stia, a interpretare un sano realismo, additando con pungente ironia tutto ciò che ha a che fare con la profondità del pensiero, con la necessità di analisi complesse, con l’obbligo di concepire ed esplicitare una visione ampia del futuro. In tale ricorrente semplificazione, si presenta come l’uomo del fare, gentile quanto basta per risultare simpatico ma brusco e scostante quando gli si richiede di alzare il livello del dibattito. In un paese in cui il livello culturale indietreggia in modo preoccupante, come registrato dai recenti dati Ocse, tale atteggiamento è una pompa idraulica in grado di spingerlo sempre più in alto, dove più fitta si fa la nebbia che nasconde le sue origini e le future intenzioni.
Nel XVIII capitolo de “il Principe” intitolato “La golpe e il lione”, Niccolò Machiavelli, il cui studio intenso e approfondito sarebbe sufficiente ad evitare costosi master in scienze politiche all’estero in cui nemmeno lo si nomina, indica “Quomodo fides a principe sit servanda”. Dei due animali egli invita a prendere in considerazione entrambe le nature, amministrandole con saggezza ma conferendo alla volpe il primato poiché: «quello che ha saputo usare la golpe è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire ed essere gran simulatore e dissimulatore, e sono tanto semplici gli uomini e obbediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare». E Machiavelli non conosceva la sterminata letteratura sui persuasori occulti o meno, dal sociologo statunitense Vance Packard ai filosofi della Scuola di Francoforte, passando per Josè Ortega Y Gasset, Wilhelm Reich, Erich Fromm, Sigmund Neumann e Hannah Arendt, non trascurando il recente “La società signorile di massa” del nostro Luca Ricolfi.
La terza fase della trasformazione consiste nell’esercizio della munificenza cioè della capacità, tutta regale, di elargire il più possibile incarichi individuali o seggi ai propri fedelissimi, senza a null’altro guardare, e collettivi al popolo, non curandosi di future conseguenze sulla stabilità economica dello Stato che si avrà sempre tempo per addebitare ad altri nemici interni o esterni. Tale munificenza sarà tanto più apprezzata se promanerà da un’immagine esteriore di religiosità: «E paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione» continua Machiavelli.
Quando in questa fase egli ha la fortuna, altro elemento da non trascurare come per ogni destino umano, di poter disporre di ingenti risorse provenienti da fonti diverse, il gioco si compie. Occorrerà molto tempo prima di rendere conto del proprio operato che egli proclamerà sempre essere stato in nome e nell’interesse del popolo, attribuendo eventuali insuccessi a sabotatori spesso identificati in coloro che ne hanno favorito l’ascesa, indicando per essi la colonna infame.
Una sequenza del film Lawrence d’Arabia, vede Awda Abu Tayi, il volubile capo della tribù beduina degli Howeythat, interpretato da Anthony Queen, pronunciare la frase «sono forse ricco io ? No, io sono povero, perché io sono un fiume per il mio popolo!» E riceverà l’ovazione che cercava per giustificare il tradimento nei confronti dei Turchi e aiutare, dietro lauto compenso, il maggiore Lawrence nella conquista ritenuta impossibile della città di Aqaba sul Mar Rosso.
Il coronamento di questo percorso è l’accreditamento di se stesso presso le “corti straniere” cui egli si propone come in grado di mantenere fede agli impegni assunti, pronto a scaricare l’eventuale colpa futura che gli sarà addebitata su fumose burocrazie che iscrive d’ufficio nei ranghi dei propri antagonisti visto che manovrerebbero l’esercizio di poteri ostativi, quando non definiti addirittura d’interdizione rispetto ai suoi programmi. Anche per essi si profilerà all’orizzonte la colonna infame.
Verso di essa il percorso è molto più rapido, istintivo e talvolta violento. Trae alimento nella disperazione del popolo deluso e prende forme diverse ma sempre umilianti che vanno da clamorose rivelazioni che abbattono il sogno di statue più o meno vagheggiate, post mortem, dagli interessati, a bufere giudiziarie, al dileggio attraverso il lancio di monetine e talvolta alle patrie galere. Peggio ancora era in passato con la rabbiosa rimozione di simboli abbattuti a martellate e uomini della provvidenza finiti appesi in piazzali di periferia e del cui tentativo di emulazione si è già scritto. Spesso il danno è già fatto ed occorreranno anni di sacrifici delle nuove generazioni per risalire la china.
E, l’albero della cuccagna? Presente con infinite varianti nelle tradizioni popolari del nostro Paese ma anche di molte altre nazioni europee, mantiene il fascino di ottenere con poco sforzo muscolare delizie gastronomiche o borse di zecchini negate ai più. In Italia, certa politica populista ha accorciato di molto il palo che lo rappresenta, dando a intendere quanto sia più facile raggiungerne i premi. In passato era il sogno irraggiungibile di una vincita al Totocalcio, di un terno al lotto e più recentemente della conquista del jackpot Enalotto con pochi euro.
Un evento eccezionale riservato a pochissimi da una sorte particolarmente benigna. Non se ne faceva un dramma e si continuava a tirare la carretta. Oggi un piccolo albero della cuccagna sembra a portata di mano, raggiunge strati della popolazione dagli incerti requisiti, assicura una relativa pace sociale e seda ogni giusta rivendicazione di investimenti per il lavoro in ogni parte del Paese, eternamente rinviati proprio a motivo della colpevole ambiguità della politica nei confronti dei ceti produttivi, oggi diventata paralizzante.
In passato l’albero era innalzato nelle piazze durante fiere e feste patronali, oggi ha la forma neutra di una carta di credito su cui, per diciotto mesi, affluisce in misura variabile il sussidio di povertà perché tale è la sua essenza, senza disturbare termini ben più nobili quali cittadinanza o universalità. Fa parte di un’antica liturgia assistenzialista che permette allo stato di differire le proprie responsabilità, di coprire i propri incolmabili ritardi in materia di riforme, di violare sotto gli occhi di tutti il dettato costituzionale che dà diritto al lavoro e non all’elemosina. Il balcone fatale ancora una volta porterà male.
Chi si illudesse di porre rimedio a tutto, disperdendo in mille rigagnoli la pioggia di oltre duecento miliardi del NextGenerationEU e rifiutando nel frattempo i trentasette di finanziamenti destinati in modo vincolato alla Sanità, avrà presto una brutta sorpresa da quei paesi frugali che tanto sono stati irrisi e non potrà appellarsi a colei che pensava di aver arruolato in una forma di reciproco sostegno favorendone, tra la sorpresa generale, l’elezione alla presidenza della Commissione europea.
Nonostante alcune aperture segnalate da la Repubblica di giovedì circa un possibile utilizzo per una riduzione delle tasse ma in presenza di una riforma fiscale e non in compensazione diretta, già nella medesima giornata il commissario europeo allEconomia, Paolo Gentiloni, ha dichiarato ad Huffington Post che «i soldi non devono essere usati per un taglio generalizzato delle tasse». Ed è solo l’inizio.
A guardia dell’albero della cuccagna ci sono i navigators, i nuovi orfani delle cosiddette politiche attive del lavoro promosse da politici ircocervi già ricordati da chi scrive e che sembrano piuttosto i rematori rassegnati delle barche a fondo piatto che scivolano su quel placido quanto eterno Mississippi dove furono pensati. Una schiera di giovani, spesso brillanti ma mortificati nell’accesso alle professioni per cui avevano studiato, rivolgeranno presto lo guardo verso i magri doni da cui sono esclusi e confinati in una riforma del mercato del lavoro, condotta all’italiana. Presto scadrà il loro contratto, si aprirà l’ennesima vertenza e, nel frattempo, percepiranno anch’essi il reddito di cittadinanza? Chi farà da navigator agli ex navigators?
Ecco i frutti avvelenati dell’albero della cuccagna, pensato nel Medio Evo per fare festa soltanto un giorno all’anno e diventato oggi il palo a cui impiccarsi o la colonna infame a cui essere incatenati. Mentre scorrono lenti i giorni senza le opere, sembrano intravedersi «di là dal fiume e tra gli alberi» le ombre di un passato che molti tornano a rimpiangere e verso il quale un Paese disattento, smarrito e speriamo non privato anche di un’adeguata rappresentanza parlamentare, sembra procedere inesorabilmente.