Rendere più competitivo e autonomo il settore industriale dei Paesi membri dell’Unione Europea. È questo l’obiettivo della Commissione europea e dei ventisette Stati membri. Un progetto diventato sempre più concreto dopo la pandemia del coronavirus che ha mostrato la fragilità di alcune catene produttive del Vecchio Continente. Si è parlato molto di questo problema nel Consiglio europeo di venerdì 2 ottobre, durante il quale i leader dei 27 Stati membri hanno chiesto alla Commissione di identificare i settori strategici più dipendenti dalle risorse di Cina e Stati Uniti per «condurre una politica industriale ambiziosa, proteggersi da pratiche sleali e abusive e garantire la reciprocità»
Ormai la domanda non è più se raggiungere o meno l’autonomia strategica, ma quali settori privilegiare per primi per ridurre il divario esistente. Questa consapevolezza da parte dei leader del Consiglio europeo è stata accelerata dalle conseguenze economiche della pandemia ma deve la sua paternità alle idee espresse da Emmanuel Macron che ha attuato in questi anni una simile politica industriale in Francia, come evidenzia un interessante approfondimento de l’Opinion.
«Queste conclusioni fanno eco al discorso alla Sorbona di Macron, e corrispondono ancora meglio alla visione delineata pochi mesi fa dal Segretario di Stato per gli affari europei, Clément Beaune» spiega al giornale francese Alan Hervé, di Sciences Po Rennes. «Prima parlavamo di politica commerciale, protezione dei dati personali o politica della concorrenza. Qui stiamo parlando di autonomia strategica e di una politica industriale. È completamente nuovo al Consiglio europeo» continua l’esperto.
L’esempio francese ha spinto la Commissione europea ad annunciare il 3 settembre l’avvio di una nuova Alleanza industriale con l’obiettivo di diminuire la dipendenza comunitaria dall’import di materie prime dalla Cina, come il litio, la bauxite e lo stronzio, necessari per portare avanti il Green Deal europeo. Eppure come ricorda a l’Opinion Sébastien Maillard (direttore dell’Istituto Jacques Delors), fino a qualche anno fa i vertici europei avrebbero considerato «la politica industriale o l’autonomia strategica quasi parolacce».
Le tracce della dottrina macroniana «si possono già trovare nel discorso di inaugurazione del presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, quando parla di “Europa come potenza”», sostiene ancora Maillard. L’Unione è fortemente dipendente dal mercato di Pechino per quanto riguarda farmaci, automobili, componenti tecnologiche e manifattura. E forse anche per tale motivo la “vittoria” della diplomazia francese è stata molto poco rivendicata da Parigi. Emmanuel Macron, spiega il giornale d’oltralpe, si è addirittura eclissato dalla capitale belga il giorno delle discussioni sul mercato unico per tornare in Francia e presentare il suo piano contro il separatismo islamista.
«La Francia può essere orgogliosa di questo sviluppo, ma non ha interesse a proclamarlo, a rivendicarlo, perché sarebbe controproducente. Perché l’idea possa avanzare, deve essere “demacronizzata”. È importante che venga indossato da altri» aggiunge Sébastien Maillard.
Di altro avviso è Iain Begg, della London School of Economics (LSE), che spiega a l’Opinion perché è ancora presto per parlare di una vittoria francese: «Vedo ovunque questa evoluzione verso qualcosa di simile al mercantilismo – dice il ricercatore. Spinti da Cina e Stati Uniti, ci stiamo allontanando dalla logica del commercio internazionale, vantaggioso per tutti, per andare verso un gioco a somma zero. Gli europei sentono di aver lasciato fare troppo agli americani e stanno cercando di reagire. È abbastanza logico».
Come affermato dal commissario per l’Industria europea Thierry Breton, «il tempo di un’Europa naïve che fa affidamento sugli altri per i suoi interessi è finito». Pertanto i passi avanti fatti in questi ultimi mesi non sono altro che una forma di protezione che la pandemia ha reso necessaria per evitare quelle crisi a cui le economie che dipendono dalle importazioni o fanno affidamento sui mercati esteri sono più esposte.
E questo vale, per l’appunto, anche per l’Unione europea. «È chiaro che l’Europa non vuole essere prigioniera di una guerra fredda sino-americana e che la crisi sanitaria, che ha crudelmente messo a nudo le dipendenze dell’Ue, ha accelerato le cose. Ma c’è anche una dimensione più politica: l’Ue deve escogitare un progetto positivo, non solo difensivo, anche se si avvia verso una crisi economica senza precedenti», commenta Alan Hervé al giornale francese.
In ogni caso, i Ventisette sono uniti come mai prima d’ora attorno a un piano comune per il loro mercato unico. La Germania, continua l’articolo, che ha svolto il ruolo di forza trainante nella costituzione del progetto, sembra sempre più convinta della necessità di sviluppare l’industria europea. Così come è stato emblematico, lo scorso 3 settembre, il lancio del piano per creare una rete tra gli Stati membri per produrre litio, bauxite e stronzio, necessari per attuare davvero il Green Deal, e rendersi autosufficiente dalle materie prime cinesi.
Cosa manca adesso? Il passaggio all’attuazione concreta di questa nuova politica industriale. La quale potrebbe, tuttavia, creare tensioni. «Il Nord Europa rimane attaccato all’ideale liberale e al libero scambio e potrebbe rallentare il nuovo slancio europeo – svela il giornale. Mentre gli stati più piccoli non nascondono la loro paura per la creazione di “campioni industriali” che potrebbero soffocare le loro piccole medie imprese».
È troppo presto quindi per parlare di svolta, in quanto «dobbiamo ancora attendere proposte concrete accettate dal Consiglio e dal Parlamento europeo. L’Europa è come un transatlantico che impiega molto tempo per voltarsi. Qui siamo più in attesa della svolta», conclude Sébastien Maillard a l’Opinion.