Martedì sera Vitaly Markiv è stato assolto in appello a Milano per la morte di Andrea Rocchelli, fotoreporter italiano, avvenuta nel 2014 a Sloviansk, in Ucraina in una zona contesa tra le truppe regolari di Kiev e i separatisti filo-russi. Insieme a Rocchelli morì il suo interprete, l’attivista russo anti-putiniano Andrei Mironov e fu ferito il giornalista francese William Roguelon.
Markiv, soldato della Guardia Nazionale ucraina, era stato condannato in primo grado a 24 anni di reclusione dal Tribunale di Pavia per avere orchestrato il fuoco contro i giornalisti “ficcanaso” dalla sua postazione (a una distanza di quasi due chilometri dal luogo in cui Rocchelli, Mironov e Rougelon furono colpiti) e, addirittura, per avere rivendicato il delitto in una intervista apparsa il giorno dopo sul Corriere della Sera.
Le fondamenta dell’inchiesta giudiziaria apparivano decisamente fragili, visto che il giornalista che aveva sentito Markiv, Marcello Fauci, insieme a Ilaria Morani, che aveva firmato il pezzo per il sito del Corriere, non aveva dedotto dalle parole di Markiv la rivendicazione di un omicidio, né una particolare ostilità verso i giornalisti, al punto da continuare in seguito a frequentarlo e a farsi aiutare da lui (Markiv procurò in seguito proprio a Fauci un giubbotto antiproiettile, perché potesse muoversi con più sicurezza in un contesto di guerra).
Il riassunto della vicenda giudiziaria, delle sue premesse e del suo svolgimento, ha caratteri che eufemisticamente si potrebbero definire particolari, ma che appaiono decisamente kafkiani, e su cui hanno finito per pesare in modo determinante i pregiudizi politici sulla natura “fascista” del patriottismo ucraino e “antifascista” del separatismo filo-russo. Occorre ricordare peraltro il patriottismo ucraino aveva un’impronta dichiaratamente europeista e che la materia del contendere con Mosca fu infatti proprio l’accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione europea, che venne sospeso nel 2013 dal presidente filorusso Janukovyč, dando luogo alle proteste di Euromaidan.
Sia in primo grado, sia in appello si è molto insistito sull’ostilità degli ucraini verso i giornalisti (quindi Rocchelli e Mironov non potevano essere caduti che per mano ucraina) e sullo scrupolo dei separatisti verso le possibili vittime civili, cosa che appare grottesca considerando che due mesi dopo la morte di Mironov e Rocchelli venne colpito da un missile antiaereo dei filo-russi il volo MH17 della Malaysia Airlines (298 morti civili).
Un mese fa al procuratore che sosteneva l’accusa nel processo di appello era giunta una lettera dei familiari e amici di Mironov, che sollevavano dubbi sull’inchiesta, analoghe a quelle dell’Associazione Memorial, di cui Mironov faceva parte, che aveva costituito un gruppo di lavoro indipendente giungendo a conclusioni molto critiche sul processo di primo grado.
Andranno ovviamente lette le motivazioni della sentenza, ma non è irragionevole ipotizzare che la Corte di appello abbia svalutato i presupposti non solo indiziari, ma marcatamente ideologici, della condanna di primo grado. D’altra parte, non c’è dubbio che attorno al caso Markiv si sia coagulato uno schieramento colpevolista, con a capo la Federazione Nazionale della Stampa, costituita parte civile, che ha adattato a questo caso uno schema ricorrente della retorica giudiziaria italiana, dichiarando anticipatamente l’assoluzione dell’imputato oltraggiosa per la memoria della vittima, come se i processi penali servissero a “produrre” colpevoli e non a verificare che le accuse risultino provate al di là di ogni ragionevole dubbio.
Peraltro Markiv era un colpevole perfetto anche per ragioni sfortunatamente “congiunturali”. Tra le centinaia di persone che combattevano lungo la linea del fronte in cui morirono Rocchelli e Mironov era l’unico con doppia cittadinanza italiana, l’unico che, per questa ragione, intratteneva rapporti con i giornalisti italiani, l’unico che credibilmente poteva essere accusato di averli “puntati”, nonché l’unico a tornare ogni tanto in Italia dove avrebbe potuto essere arrestato.
Quando nell’udienza conclusiva la procuratrice Ciaravolo ha sostenuto che non era rilevante che gli ucraini avessero riconosciuto i bersagli dei loro colpi come giornalisti, trattandosi in ogni caso di civili, a molti è apparso chiaro che quello dell’accusa era un tentativo di parare un’obiezione, in base ai fatti, imparabile, visto che non esistevano prove né che Markiv al momento della morte di Rocchelli e Mironov stesse dove l’accusa l’aveva “messo”, né che vista la distanza e la strumentazione ottica disponibile fosse in grado di riconoscere le vittime.
Nel complesso, la sentenza di martedì è una pagina felice non solo per Markiv, per i suoi amici e per i suoi familiari, ma anche per la giustizia italiana a cui una ennesima condanna avrebbe inferto una ferita molto più dura di una assoluzione. Quanto alle vittime, chi può onestamente pensare che a Rocchelli e Mironov sia stato tolto qualcosa non condannando un colpevole perfetto (ucraino e quindi nazionalista e fascista, ma anche un po’ italiano) sulla base di indizi non solo inconsistenti, ma scopertamente ideologici?