Il 2020 finisce proprio com’era finito il 2019: con una banana.
Quella dell’anno scorso era esposta alla fiera d’arte di Miami, era una banana attaccata al muro con un pezzo di scotch da Maurizio Cattelan, ed era stata venduta per centoventimila dollari. Proprio mentre noi cialtrone esultavamo (dunque c’era modo di monetizzare il cibo andato a male nel nostro frigo), fu svelata la fregatura: non era quella specifica banana a venire venduta, ma l’idea. Non era che Cattelan venisse ogni cinque giorni a casa tua a cambiartela con una fresca attaccata con uno scotch con le sue impronte: era che per centoventimila dollari acquisivi il diritto ad attaccarti una banana sul muro.
Nessuno, essendo l’opinione pubblica del 2019 più distratta di quella del 2020, argomentava che mica c’era abbastanza polizia da mandare casa per casa a controllare se ci fosse frutta attaccata ai muri senza che Cattelan avesse fatturato (a tutti quelli che adesso sbraitano contro potenziali controlli del numero di commensali alla loro cena della vigilia non importa evidentemente niente dell’arte contemporanea: brutti ignoranti).
Poi l’anno è andato com’è andato, dire che è stato per il mondo intero quel che il 1997 era stato per la famiglia reale inglese è diventato scontato, e ora siamo al fisiologico controcorrentismo: il gioco di fine anno è trovare cose buone nel 2020.
E il New York Times, in una lista di bicchieremezzopienismi, mette le banane. Quelle troppo mature, marroncine, che una volta non potevi non dico attaccare ai muri, ma neanche dare a tuo figlio da portare a scuola, se non volevi essere qualificata come madre degenere. Il 2020 le ha riscattate, dice l’autorevole NYT: ora con le banane quasi marce ci si fa il ciambellone.
Dice che è stato un ottimo anno anche per i cani nei canili, tutti ne volevano adottare uno; e per il disordine, legittimato dallo stare sempre in casa (incredibilmente, nella lista d’impresentabilità diventate presentabili nel 2020, non citano i pantaloni con l’elastico).
Siamo talmente annoiati dalla lagna perpetua, che quest’anno è in eccesso persino per un’epoca per cui la lagna è l’unica divinità indiscussa, che cerchiamo bicchieremezzopienismi in qualunque angolo d’insoddisfazione.
L’altro giorno un mio coetaneo ha scritto su Facebook che per lui il 2020 è stato un anno bellissimo. Poiché lo conosco e so che come tutti ha guadagnato un quarto di prima, come tutti si è esaurito il quadruplo di prima, e come tutti è matto ma non del tutto, sono andata avanti a leggere. Diceva che quest’anno si era innamorato. E sì, la tizia gli ha strappato il cuore e gliel’ha servito al forno su un letto di riso pilaf, ma cosa importa. Non avrei mai detto di potermi innamorare di nuovo, alla mia età, aggiungeva, improvvisamente militante del bicchieremezzopienismo.
Ho pensato per un attimo se fosse il caso di scrollarlo e fargli capire che stava delirando, ma poi mi sono resa conto che sarebbe potuta andare molto peggio. C’erano molte cose altrettanto inadatte alla nostra età, e ben più gravi, che avrebbe potuto fare.
Si sarebbe potuto tatuare. Avrebbe potuto cominciare a indossare felpe col cappuccio e magliette con le scritte. Avrebbe potuto avviare una relazione con la moglie d’un altro e poi frignare perché non si vedevano durante la clausura sanitaria. Avrebbe potuto scrivere un romanzo.
Il romanzo, tra l’altro, è il mio «in fondo non è stato un anno malvagio» del 2020. Avrei potuto far uscire un libro nel 2020, e il libro avrebbe potuto non vendere niente. In un anno in cui chiunque vende, anche quelli che fanno libri sui tipi di colla più giusti per il modellismo. In un anno in cui la gente s’è abituata a comprare su Amazon e acquista volumi di saghe anche se consigliati da programmi televisivi che finora s’erano rivolti solo ed esclusivamente ad analfabeti.
L’altro giorno uno scrittore ha scritto su Facebook che i poteri forti lo discriminano, lo escludono dalle classifiche, non gli danno il risalto che merita, ma lui non si lascia turbare da queste conventicole giacché il 2020 è stato «grande e soddisfacente». Sono corsa a controllarne le vendite, perdincibacco, com’era possibile non l’avessi mai sentito nominare, questo libro che ha venduto più di quelli sulle colle viniliche, questo libro che spero possa farmi da modello nelle vendite. Nella settimana prenatalizia, aveva venduto quattro copie.
Il 2020 poteva andare peggio. Potevo innamorarmi. Pubblicare un libro che vendeva tre copie (sulla nostalgia dell’Uhu, l’attaccatutto di quand’eravamo bambini). Fare l’abbonamento annuale all’ATM o quello alla palestra (e poi sprecare un sacco di tempo a chiedere i rimborsi). Poteva piacermi così poco stare chiusa in casa da prendermi un cane pur di uscire a farlo passeggiare. Potevo essere stata fin lì ordinata, e diventare casinista solo nel 2020, senz’alcun allenamento nello scavalcare pile di libri, sacchi di vestiti da portare al lavasecco, e banane in attesa d’essere scoperte da un artista multimilionario.
Poteva andare peggissimo. Potevo cantare dalle finestre, e invece tutte le mie finestre sono state tappate dalle impalcature dal 2019 fino allo scorso novembre. Credevo fosse un bicchiere mezzo vuoto, e invece: non fosse stato per le impalcature, mi sarei potuta buttare dalla finestra.