Pochi conoscono la storia di Giovanni Belzoni, l’archeologo padovano che, a metà tra Settecento e Ottocento, ha quasi inventato l’Egittologia.
Pochi, ed è un peccato, perché l’uomo fu tante cose insieme: esploratore, viaggiatore, ingegnere, ottimo disegnatore. Appassionato di antichità, soprattutto: grazie a lui che sono stati ritrovati obelischi, statue, tombe. Belzoni fu il primo a entrare nel tempio di Abu Simbel, lui trovò l’ingresso per la piramide di Chefren, a lui va il merito della scoperta della preziosissima tomba di Seti I (ancora oggi chiamata “Tomba Belzoni”).
In poco tempo divenne una celebrità, le opere che portò in Europa raccontavano un passato sconosciuto e maestoso, scrisse un libro tradotto in tutte le lingue. Ma la storia va a ondate, il suo ricordo (tra i non specialisti) si è eroso ed è diventato un «unsung hero».
O quasi. Perché proprio partendo dalla sua storia, ispirati dal fascino della sua figura raccontata in “Il gigante del Nilo”, libro del vicedirettore della Stampa Marco Zatterin, è nato un progetto musicale.
È quello della Banda Belzoni, ensemble costituito da nomi importanti del prog-rock e prog-jazz italiano come Luigi Venegoni, Mauro Mugiati e Sergio Ponti, cui si sono aggiunti musicisti del calibro di Paul Mazzolini, Lino Vairetti e Fabio Zuffanti (e il contributo fondamentale, per l’idea e i testi, dello stesso Zatterin).
Il risultato è stato un disco, o meglio un concept album composto secondo i dettami dell’opera rock, che cerca di raccontare – tra melodie, canzoni e testi recitati – la vita e la gloria del grande esploratore dimenticato.
«Il progetto risale a qualche tempo fa», spiega Venegoni a Linkiesta, «ma è arrivato a compimento l’anno scorso. Ne abbiamo fatto un disco e un cd e pensavamo, sul modello del teatro-musica, a una serie di esibizioni in cui suonarlo insieme a messinscene e letture». Poi è arrivato il Covid «ed è saltato tutto».
Questo non ha fermato i lavori, anzi. La Banda Belzoni è andata avanti, ha ripreso in mano alcuni brani e li ha ripensati, riscrivendo cinque tracce dell’album.
«Abbiamo cambiato alcuni arrangiamenti, scambiato gli interpreti, pensato a nuove soluzioni». Il lavoro finale arriverà all’inizio di dicembre su internet: «In streaming, cioè quello che chiamo la musica liquida», su varie piattaforme tra cui Bandcamp. I nuovi brani «saranno una sorta di teaser per rimanere in contatto con il pubblico» ma anche un modo per sperimentare nuove idee.
Il coinvolgimento di Paul Mazzolini, in arte Gazebo, è stato prezioso, «perché ha rifatto un mix dal sapore dance di “La città perduta”», cambiandone i ritmi ma mantenendo lo spirito, «senza che per questo» scherza Venegoni «si possa ballare in discoteca», mentre “Il sorriso del re” «viene interpretato sotto forma acustica» adattando le registrazioni fatte «ognuno a casa sua durante il lockdown» (Venegoni, oltre a essere chitarrista e compositore, è anche arrangiatore e produttore).
Infine una demo inedita, pensata per essere il brano introduttivo dell’album (poi messa da parte) è stata ripescata, dissezionata in alcune sue componenti ritmiche «e riadattata in alcuni passaggi di “Scrivi con ogni carovana”, canzone che vuole ricordare la corrispondenza che Belzoni aveva con la moglie quando lei rimaneva a casa e lui partiva». Nelle note rock si vedono volare danzare le lettere, messaggi e disegni dei ritrovamenti, insieme a nostalgie e sogni di gloria.
Nella musica e nelle parole, insomma, la figura di Belzoni ritorna più poetica che mai: fu un uomo generoso, entusiasta, attento alla cultura locale (si fece crescere la barba, usò vestiti egiziani e imparò la lingua per comunicare meglio) e ispirato a grandi imprese.
Morì sulla strada per Timbuctù, “L’ultimo viaggio”, sconfitto nel corpo ma non nella volontà. Fu un uomo straordinario e, come recita la fine di “In Viaggio”, lo sapeva: «Ma come fa ad arrendersi il villano? Io vedo cose ignote ai più sapienti. Tesori, gioie e realtà stupefacenti. Li tocco e li accarezzo piano piano».