Tre ragazzi moscoviti arrivano in un villaggio sperduto. È l’inizio canonico di un’avventura, di una fiaba – e già la distribuzione dei ruoli del terzetto, tra il noiosone, lo spaccone e l’eroe, sa di classico – o di uno di quei film horror per adolescenti che piacciono tanto al protagonista. «Tutto era innaturalmente pacifico», come cantava Boris Grebenščikov nel suo Western metafisico, e «l’orologio sulla torre rintoccava la mezza di un giorno trascorso da molto tempo».
È un villaggio qualunque, povero e dilapidato e i tre forestieri ci entrano con la spavalderia di tre pistoleri convinti che il loro equivalente della Colt – i cellulari, i dollari e l’appartenenza alla civiltà tecnologicamente superiore della capitale – li renda invulnerabili.
La suspense monta piano piano, nei fruscii delle erbacce nelle case abbandonate, nei fumi delle torbiere in fiamme, negli sguardi di sbieco dei passanti, nello zampettare di cani invisibili, nelle ombre che sembrano dare vita a uno strano affresco di un ancora più strano santo e nelle parole tronche mugugnate dalla pazza del villaggio.
Aleksej Ivanov è il suo protagonista Kirill hanno letto Stephen King e visto David Lynch, e imparato alla perfezione la regola di Twin Peaks: «I gufi non sono quello che sembrano», il mistero si nasconde sotto terra e sotto pelle, come il fuoco invisibile nelle torbiere. Hic sunt monstra, tutti conoscono il segreto del villaggio, e lo nascondono ai forestieri, per osservarli marciare, ignari e presuntuosi, verso la propria inevitabile sciagura.
Il piatto forte di Aleksej Ivanov sono le polpette avvelenate, e un romanzo che all’inizio sembra la sceneggiatura per Netflix di un horror di King in salsa russa fa esplodere tutti i canoni del genere, per ricomporsi in un meraviglioso giochino a incastro che, come un cubo di Rubik, mostra sfaccettature diverse: un mystery avvincente? Un giallo per intellettuali? Un romanzo storico? Una sceneggiatura per una serie Young Adult? Una dirompente parabola politica? Uno spaccato generazionale? Un folk-horror che anticipa i nuovi cult cinematografici Midsommar o The Third Day? Un dissacrante viaggio all’indietro nella genetica culturale di un paese?
“I cinocefali” non sono mai quello che sembrano, a ciascuno dei numerosi tornanti del plot riescono a smontare le aspettative stereotipate, e nella campagna che dovrebbe custodire, secondo Tolstoj e Solženicyn, le sacre tradizioni spirituali di un popolo paziente e pio, scorrazzano mostri sanguinari (non si capirà mai fino in fondo quanto reali e quanto generati dal sonno della ragione), mentre i ghostbusters moscoviti armati di raziocinio e tecnologie soccombono alle oscure superstizioni di un passato di cui ignoravano l’esistenza.
Il passato è il protagonista principale di un romanzo ultramoderno, e l’esplorazione dei tre ragazzi si sviluppa non tanto in una dimensione geografica quanto temporale. Quello che salta subito all’occhio, in controtendenza rispetto ai tormenti di molti giovani europei, è che questi ventenni russi sembrano orfani: non menzionano mai i loro genitori, se non in un contesto di circostanze logistiche/economiche, per non parlare dei nonni, lontani quanto potrebbero esserlo gli Antenati armati di clava e ascia di pietra.
L’emancipazione è un non-problema: il legame intergenerazionale è stato reciso, e Quentin Tarantino ha influito sull’educazione sentimentale di Kirill molto più della sua famiglia, o della scuola. Sono ragazzi nati alla fine degli anni ’80, e la perestrojka che da “ristrutturazione” è diventata una rottamazione del paese dei loro genitori li ha resi privi di un passato.
Non hanno un background dal quale emanciparsi, il gergo in cui comunicano è un misto di russo e inglese, i riferimenti culturali che hanno più a portata di mano sono Hollywood e i blog di internet, e la storia del loro paese è qualcosa di estraneo, superato e vagamente di cattivo gusto, quanto il villaggio nel quale sono capitati.
Un conservatore vedrebbe in loro gli agghiaccianti mankurt, gli schiavi senza memoria del capolavoro di Čyngyz Ajtmatov “Il giorno che durò piu di un secolo”, un liberale l’homo novus globalizzato, ma sono semplicemente la prima generazione postsovietica, i figli di un paese dal passato imprevedibile, i cui genitori si sono vergognati di trasmettere loro qualunque memoria storica, nel dubbio che non ci fosse nulla da salvare dalla demolizione.
Ed è proprio l’assenza degli anticorpi della storia che rende i tre protagonisti vittime vulnerabili dei cinocefali. La storia russa che Kirill scopre nelle sue indagini, scorrendola sul monitor del suo portatile come un videogame, farcita di zar e guardie del Gulag, scismatici e galeotti, santi e inquisitori, è molto più pulp della narrativa che adora, e lo trova totalmente impreparato, e inorridito.
L’esplorazione di quello che è in fondo il suo paese lo lascia con gli occhi spalancati, gli stessi con i quali il suo coetaneo Jurij Dud’, lo youtuber più celebre della Russia, viaggia nella gelida terra dei lager staliniani di Kolyma (il film “Kolyma. La patria della nostra paura” ha fatto il record di visualizzazioni e si può vedere con i sottotitoli in inglese)
Dud’ è partito per girare il suo documentario dopo aver sentito un sondaggio che rivelava come più della metà dei russi tra i 18 e i 24 anni ignorasse totalmente le repressioni staliniane, per mostrare la prigione di ghiaccio dei loro nonni.
Kirill è un ragazzo colto, è al corrente dell’esistenza del Gulag, ma fino all’arrivo nel villaggio ritiene che questo pezzo di storia sia stato ormai archiviato, che non lo riguardi. Inizia a esplorare la Russia rurale con il distacco di chi visita delle rovine archeologiche, sentendosene profondamente alieno: più che membro di un’altra società, rappresentante di una diversa civiltà. I cinocefali sono dei guardiani che impediscono di sconfinare, e nel testo sono disseminate decine di bandierine che segnalano e delimitano i diversi territori abitati dai vari personaggi. <…>
Il primo e più evidente dei confini difficili da superare è quello che separa Mosca dal resto della Russia, uno dei perni su cui ruota il romanzo.
Per un lettore italiano, cittadino di un paese storicamente policentrico composto da numerose realtà la cui rilevanza storica, culturale, politica o economica è paragonabile, è difficile se non impossibile immaginarsi un sistema come la Russia, dove la capitale rappresenta un mondo a parte, e tutto quello che si trova oltre il suo raccordo anulare – cioè il territorio sterminato del paese più esteso sulla terra – viene accomunato sotto l’etichetta sbrigativa e spregiativa di “provincia”.
Il sogno delle tre sorelle di Čechov “A Mosca! A Mosca!” nei Cinocefali si trasforma in ossessione, la capitale diventa una civiltà aliena al proprio paese e si difende con gli artigli dall’invasione dei propri concittadini che considera indegni. <…>
Lo scontro con il passato del suo stesso popolo arriva come uno shock, così come la scoperta che si tratta di un passato ancora vivo. È la storia il vero mostro che si nasconde tra le izbe fatiscenti e i boschi pieni di tombe, e annientare secoli di atrocità e repressione con un incantesimo o un’arma da supereroe si rivela impossibile.
Tutti sono colpevoli e tutti sono vittime, in un groviglio di maledizioni che ricadono di generazione in generazione, il ritorno alle origini su cui tanto si tormenta un pezzo di cultura europea non può che essere un incubo e, per parafrasare di nuovo Grebenščikov, «nessuno tranne noi sapeva dove fosse l’uscita, ma perfino noi non sapevamo dove si trovasse l’entrata».
dalla postfazione di Anna Zafesova a “I cinocefali”, di Aleksej Ivanov, Voland, 2020, 400 pagine, 20 euro