Non si può rispondere alla crisi se non con una maggiore flessibilità nei contratti di lavoro. A cui bisogna affiancare però un importante investimento in formazione per garantire l’occupabilità e la continuità lavorativa. Ne è convinto Massimiliano Medri, managing director di Adecco Workforce Solutions che, dal suo osservatorio, monitora ogni giorno le esigenze di imprese e lavoratori.
Medri, che ruolo ha oggi il contratto a tempo indeterminato nel mondo del lavoro?
Il contratto a tempo indeterminato continua a rappresentare per i lavoratori un elemento di sicurezza sul quale basarsi per la costruzione della propria vita personale e professionale. Ma per molti lavoratori la possibilità di svolgere – soprattutto in una fase iniziale della propria carriera – diverse esperienze lavorative oggi rappresenta un plus nel loro bagaglio professionale. Un cambio di atteggiamento che li porta a guardare in maniera positiva anche ad altre forme contrattuali. Naturalmente, senza mettere in secondo aspetto i temi di tutela e sicurezza. Diciamo che la flessibilità relativa a orari, ruoli, mansioni, è oggi al centro della domanda anche di chi cerca lavoro.
E per le aziende?
In Italia, soprattutto in questo momento, le aziende hanno sempre di più bisogno di forme contrattuali flessibili che consentano di rimanere competitivi nel mercato. Dall’altra parte si confrontano anche con la tipologia di flessibilità richiesta dai candidati.
Questa esigenza è aumentata con la crisi Covid?
La crisi che stiamo vivendo ha visto l’esplosione di alcuni settori come la logistica, l’e-commerce e agroalimentare. E la conseguente impennata di richieste di lavoratori all’interno di questi settori, con contratti che necessariamente sono flessibili. L’esigenza di flessibilità è anche legata al fatto che sono sempre di più in questo momento le richieste di sostituzione di lavoratori in quarantena o impossibilitati a recarsi al lavoro. Ma, al di là del momento contingente, la necessità di essere flessibili è sempre più richiesta per poter rimanere competitivi e quindi affidarsi ai momenti di up e di down che si vivono all’interno della storia dell’azienda.
Per contro, però, come si garantisce la sicurezza del lavoratore?
La flexsecurity è un concetto sul quale da anni come Adecco siamo focalizzati, traducendolo in azioni pratiche. La sicurezza per il lavoratore consiste nella continuità lavorativa. Adecco, ad esempio, ha circa 18mila lavoratori assunti direttamente a tempo indeterminato e poi collocati all’interno delle aziende in risposta alle esigenze che possono essere di breve, medio o lungo periodo. Da una parte rispondiamo alle esigenze di flessibilità dell’azienda, dall’altra garantiamo la continuità lavorativa, perché anche nel caso di un eventuale stop della missione con una azienda i lavoratori hanno una continuità retributiva.
Come garantite la continuità lavorativa?
Andando a investire su progetti di formazione. In piena pandemia, abbiamo lanciato un piano triennale, che vedrà coinvolti oltre 18mila lavoratori, su tematiche tecnologiche con un investimento di 1 milione di ore di formazione erogate da Mylia, il brand del nostro gruppo che si occupa di formazione professionale. Aggiornare continuamente le proprie competenze rende i lavoratori più spendibili sul mercato del lavoro, impiegandoli anche in opportunità di breve periodo. Così si mantiene una percentuale molto bassa di lavoratori che restano non occupati.
Può fare qualche esempio?
Nel corso del picco della pandemia, da parte di una azienda cliente ci è arrivata la richiesta di lavoratori da remoto che avrebbero dovuto usare determinati strumenti digitali e informatici. Abbiamo erogato un corso di formazione che ha portato questi lavoratori ad acquisire queste nuove competenze e li abbiamo così messi al lavoro. Persone che facevano un’attività si sono trovate a farne una differente, ma è chiaro che di base ci devono essere delle competenze affini. O ancora: quando in pieno lockdown si raccontava della scarsità di figure professionali in ambito agricolo, con alcuni clienti siamo intervenuti andando a pescare da un bacino di persone che erano impiegate come operai generici in settori che in quel momento erano in forte crisi. Dove abbiamo trovato affinità in termini di skill, siamo riusciti a ricollocare i lavoratori nel settore agricolo.
Questa è la flexsecurity che funziona in Adecco, ma in Italia non è proprio così.
Diciamo che in Italia siamo ancora abbastanza lontani dal concetto di flexsecurity. C’è bisogno di un quadro normativo che consenta di farlo e con le norme messe in campo con il decreto dignità, sicuramente non si va in questa direzione. Il decreto dignità ha portato a un irrigidimento delle forme contrattuali, penalizzando aziende e lavoratori. Dopo i 12 mesi, solo una minima parte dei contratti a termine è stata trasformata in contratti a tempo indeterminato, mentre il resto è stato sostituito. Quindi le aziende si sono ritrovate con personale che non era formato e senza esperienza. E i lavoratori dopo 12 mesi si sono dovuti rimettere in gioco. E senza una rete di protezione.
Bisogna riprendere quindi il discorso delle politiche attive rimasto a metà con il Jobs Act?
Le politiche attive saranno al centro, non solo per volontà ma anche per necessità, degli sviluppi del mondo del lavoro in futuro: in un orizzonte di transizione, fatto di cambiamenti rapidi e improvvisi che metteranno in discussione professioni, competenze e occupazione come li pensiamo oggi, le politiche attive saranno fondamentali per aiutare le persone nel reinserimento nel mondo del lavoro. Anzitutto però, parlando del presente, per riprendere a correre dopo l’emergenza servono fin da oggi interventi strutturali. L’obiettivo deve essere spostarsi dal concetto di occupazione al concetto di occupabilità. Che si traduce nella reale possibilità di mantenere la continuità lavorativa oltre la formula contrattuale fine a se stessa, ma legata a un intero mondo di politiche attive del lavoro che non possono non passare attraverso percorsi di formazione di cui tutti quanti dobbiamo farci carico.
Chi si deve fare carico della formazione?
Sia le aziende, sia le istituzioni, ma anche i lavoratori stessi che devono investire sulla formazione e sullo sviluppo professionale per garantirsi la continuità lavorativa. Si pensa sempre che la formazione sia qualcosa che spetta a qualcun altro e che finita la scuola finisca tutto. Bisogna invece lavorare sulla continuità, con un investimento delle aziende ma anche della persona. Secondo un sondaggio di Unioncamere, il 75% delle aziende italiane dice che investirà su azioni di reskilling e upskilling dei propri dipendenti. È un cambio di prospettiva fondamentale.
Crede che sia necessario anche un maggiore coinvolgimento delle agenzie private nel potenziamento delle politiche attive?
Dal nostro osservatorio, credo che abbiamo dato prova di quanto possa essere virtuosa la messa in campo di politiche attive anche da parte di un soggetto privato. Il fatto che possiamo essere parte attiva, con le nostre competenze, credo che sia qualcosa sotto gli occhi di tutti.