Il censimento dei colpevoliI giovani sono il capro espiatorio perfetto, spiega Giacomo Papi

Secondo l’autore di Happydemia, gli adulti hanno scaricato tutta la responsabilità sui ragazzi, comportandosi in modo meschino: «È la prima generazione a cui diciamo - dalla Prima guerra mondiale in poi – attenti, voi avete sulle spalle il destino del mondo. Potete uccidere i vostri padri e i vostri nonni. È un messaggio violentissimo»

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Giacomo Papi ha una carriera letteraria molto particolare. Ha scritto dei libri (davvero) da collezione come Accusare. Storia del Novecento in 366 foto segnaletiche, una raccolta di foto segnaletiche di volti noti. Ha scritto un particolarissimo saggio satirico come È facile ricominciare a fumare se sai come farlo e poi libri per ragazzi, romanzi che oggi definiremmo horror, romanzi molto letterari. Ma ha ottenuto un grande successo con un libro ancora diverso, Il censimento dei radical chic. A quasi due anni da quel libro di satira feroce e rapida, è da poco uscito Happydemia che riprende il tono e la lente d’ingrandimento della parodia del Censimento, ma che, allo stesso tempo è percorso anche dall’animo più lirico di Papi. Il vaccino non ha funzionato del tutto, nuovi vaccini arriveranno, ma non si sa quando, e tutto procede stancamente, tra piccole aperture e continui lockdown. Le persone sono chiuse in casa, in preda alla rabbia, ma fortunatamente una nuova app, Happydemia, in accordo col governo e grazie a un nuovo sussidio, comincia a consegnare a chiunque lo desideri prodotti per curare la rabbia, l’ansia, la depressione, le più o meno piccole alterazioni del sonno. C’è un momento di Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy, che mi viene sempre in mente quando leggo di insonnia. A un certo punto, i due giovani protagonisti lavorano ore ed ore ad addomesticare dei cavalli selvaggi. Un lavoro faticoso, pericoloso e massacrante. Quando uno dei due chiede all’altro il senso di quella fatica. L’altro gli risponde «dormiremo meglio». Ecco, non potendo mandare cavalli selvaggi Happydemia fa da delivery di psicofarmaci.  

Quando ho letto Il censimento dei radical chic mi sembrava chiaro che, nonostante tutte le critiche che gli rivolgi, i buoni fossero i radical chic, quantomeno perché erano le vittime. Leggendo questo, invece, penso che i cattivi siano quelli che vogliono far rispettare le regole, anche quelle giuste.
Io, però, anche quando scrivo ho grosse difficoltà a dividere il mondo in buoni e cattivi. Anche nel Censimento dei radical chic, subito, a pagina quattro, c’era un ritratto feroce dell’ex Primo Ministro dell’Interno, ma altrettanto feroce dei radical chic, che sono spaesati, per non dire molesti e inutili. Sicuramente questo libro cerca di raccontare la società con un’angolatura più larga e quindi è meno identitario, siamo così abituati alla satira televisiva come forma di bullismo – considerando che il primo partito in Italia è stato fondato da un bullo, dal maestro della satira bulla – che abbiamo abbandonato la pratica della satira come specchio della società. A me quello che, invece, interessa è proprio questo: usare l’umorismo come uno specchio e non come un’arma.

La satira più feroce, per me, è quella che dedichi all’evoluzione del Partito democratico che immagini nel libro. Dici del segretario che non è in grado di sognare neanche quando dorme, la sua capacità di immaginazione si è atrofizzata fino a quel punto.
È vero, è una cosa di cui mi sento anche un po’ in colpa, da amante tradito o deluso. Per me la frase chiave sul segretario del Partito del Lavoro Pago Guadagno Pretendo è quando dice che le idee in politica non servono, perché distraggono. E la critica più grande – ma in questo si riallaccia col precedente – al Pd è che il partito degli intellettuali non sembra in grado di produrre una visione del mondo, un’idea o una minima immagine di futuro. Sembra proprio schiacciato sulla gestione del presente che significa, poi, solo gestione del potere. Giusto con più buonsenso degli altri. Però il fatto che da quel partito, in quest’anno di pandemia, non sia nata un’idea, per me è sconcertante. Se mi domandassero in un bar che cosa sostiene il Partito democratico o se dovessi spiegarlo a un bambino non sarei in grado di rispondere. 

Nella finzione del libro i tuoi personaggi vanno alla ricerca di un pensiero fuori dagli schemi. Nella realtà ne hai visto qualcuno? O stiamo solo rincorrendo il virus? 
Ho visto gestione del presente. Punto. Di tutti. Non mi sembra che i politici italiani siano in questo peggio dei politici degli altri Paesi, a parte la Germania. Mi sembra che l’Occidente non sia stato in grado di fare un’analisi della società che ha creato e in cui vive, e tutto quello che gli resta è guardarla, al massimo gestirla, certo, non cambiarla. 

C’è più analisi della società, della pioggia di sussidi per esempio, in Happydemia, che dalla politica vera.
Sono davvero convinto che quello che ci ha mostrato la pandemia è che la divisione della vita nata con la rivoluzione industriale, oggi, non regge più. E che non torneremo indietro alla scansione lavoro-riposo-consumo. Stanno cambiando anche i ritmi del sonno. Diventerà un tutt’uno, che durerà 24 ore continue in cui fai la spesa mentre lavori, e così via. Non penso che questa cosa che scrivo sia geniale, ma mi stupisce che non l’abbia detto nessun intellettuale organico o nessun centro studi di partito.

La famosa citazione del Ceo di Netflix secondo cui il loro unico rivale è il sonno.
Forse sono gli anni che mi hanno aperto orizzonti mentali. Ma l’altro tema è che i giganti digitali, Amazon o Netflix o altri ancora, in realtà sembrano rispondere più della politica agli interrogativi che riguardano la vita concreta delle persone. E così sono più politici della politica. Perché, per l’appunto, poi parlano di morte, di bisogni, di desideri, cioè della nostra vita quotidiana, cosa che la politica non riesce più a fare in alcun modo. In questo senso sono politici, perché rispondono alla nostra vita sociale in modo più efficiente di quanto non faccia la politica.

La Nasa non fa sognare, allora ti butti su Elon Musk.
Esatto. Ma, poi, c’è anche l’intuizione sulla trasformazione del lavoro che Amazon ha avuto e ha provocato. Amazon ci ha mostrato che con l’automazione il ruolo di chi produce è di minore importanza, mentre è più importante il ruolo di chi trasporta le cose. La cosa grave è che Jeff Bezos ha potuto gestire questa trasformazione senza alcun disturbo da parte della politica e della società. Nella storia dell’uomo i trasportatori non sono mai stati individuati come classe sociale, anche se sono sempre esistiti. Penso che nei prossimi decenni il ruolo di chi porta le cose diventerà l’architrave del sistema economico. Ma, ripeto, non mi sembra che la politica abbia elaborato un piano in questo senso in alcun modo.

Ha impressionato molti la storia dei trasportatori costretti a vivere nei camper all’uscita della sede di Amazon a Rovigo. Tu su Repubblica, a questo proposito, hai scritto che Babbo Natale è stato il primo rider della storia.
Esatto. Ho scritto anche che Amazon gli ha rubato il modello di business. Non c’è ancora l’impressione che i rider svolgano un ruolo fondamentale. Immagino che crescerà nei prossimi decenni e che si costituiranno in classe, come si diceva una volta. Anche se, per esempio, parlavo con un amico che fa quel mestiere e mi diceva che non hanno un posto dove prendono servizio. Non si vedono se non in bici per strada, incrociandosi per caso. Quindi si conoscono poco e, a differenza della classe operaia di un tempo, non condividono neanche un luogo preciso. Faranno molta più fatica ad allearsi fra loro e, poi, si scontreranno con un altro tema sconvolgente dei prossimi anni: l’automazione dei trasporti, quando le consegne saranno fatte via drone. 

Adesso, però, per non far preoccupare chi leggesse l’intervista devo dire una cosa che, di solito, dicono gli attori dei propri film. Però si ride anche moltissimo col tuo libro. Mi hai fatto anche notare che, ormai, quando guardiamo qualcosa su uno schermo ci stupiamo se i protagonisti stanno troppo vicini.
Sì. Provare a ridere e a far ridere per me è un modo per vedere cose che altrimenti rimarrebbero nascoste. Ormai anche guardarci in faccia è strano. Oppure se capita, oggi, di tirare giù un attimo la mascherina per strada, la gente ti guarda come se mostrassi una tetta, no? Mi sembra un contrappasso, dopo vent’anni in cui abbiamo parlato ossessivamente della questione del volto coperto per l’Islam. Improvvisamente ci siamo ritrovati a vivere in un periodo in cui la strada, cioè il luogo pubblico, è il posto dove dobbiamo nascondere la faccia. Mentre la mostriamo in casa. Un tipo dei Cinquestelle del Comune di Milano ha fatto una riunione Zoom mostrandosi per sbaglio sotto la doccia. E questo è un altro tema politico gigantesco perché la ristrutturazione dei confini fra pubblico e privato è proprio un momento cruciale di tutte le svolte storiche. In Storia e critica dell’opinione pubblica, Habermas racconta di come durante la rivoluzione industriale le case siano cambiate in modo da avere uno spazio pubblico in salotto all’entrata, e spazi privati sul retro o ai piani di sopra. 

Ci creeremo tutti in casa uno spazio apposito per le dirette online?
Sta già avvenendo. Così come ci troveremo un angolo nascosto da non riprendere mai. Non so se hai avuto anche tu questa sensazione: mi sembra che la convivenza forzata, da un lato, ci faccia stare più vicini, ma, allo stesso tempo, ognuno un po’ più rintanato nel corpo. Come se il corpo fosse diventato lo spazio intimo, un guscio. È una trasformazione epocale che sarebbe avvenuta anche senza pandemia. E, poi – sto guardando una serie tv turca, Ethos – e loro, all’ingresso di casa, hanno una sorta di piccolo quadratino in cui lasciano le scarpe. È la soglia. Il confine tra pubblico e privato. Anche noi abbiamo cambiato le nostre soglie. Lasciamo le scarpe e lo sporco fuori. (Io le lascio nello sportellino del gas sul pianerottolo). Però poi ci riprendiamo dentro. 

L’ambizione del libro è trasformare questo materiale in narrazione.
Ho una mia idea di letteratura che incomincio a capire meglio dopo tanti libri. Per me il romanzo non può non accettare la sfida di raccontare il presente e di provare a capirlo e, di conseguenza, farlo capire e mostrarlo. Mentre, soprattutto in Italia, ormai i romanzi o vengono ambientati nel passato o in un mondo senza tempo, oppure si rintanano nell’io. Ma così la critica del presente, com’è successo con la pandemia, viene lasciata solo ai meme, ai serial o agli altri media.

Ieri sono stato in un ufficio postale dopo mesi. C’era un vecchietto che per sfogliare una pagina si è umettato il dito e una signora l’ha rimproverato duramente. Lui c’è rimasto malissimo. È stata una scena straziante, ma contemporaneamente aveva un potenziale da commedia.
L’altra cosa pazzesca, infatti – ma anche questa, per me, era già in atto – è la presa di coscienza del corpo come qualcosa di sporco. Da un lato il corpo è esibito nella sua digitalizzazione con tutti i filtri che abbiamo a disposizione, ma, dall’altra, la scoperta che il corpo reale – come dice Pitamiz, il fondatore di Happydemia, la più grande multinazionale di consegna di psicofarmaci del mondo, che è il cattivo del libro – vive in un mondo pieno di sputacchi. E quindi adesso accettiamo il fatto di essere tutti già infettabili, e dunque fragili. Per i ragazzi questa è una trasformazione epocale. Perché è la prima generazione a cui diciamo – dalla Prima guerra mondiale in poi – attenti, voi avete sulle spalle il destino del mondo. Voi potete uccidere i vostri padri e i vostri nonni. Se ci pensi è un messaggio violentissimo.

Non sembri avere neanche troppa fiducia nel fatto che la pandemia duri pochi mesi ancora.
Credo che, nella prima fase, il vaccino sarà un’autorizzazione al liberi tutti e, perciò, temo che i prossimi mesi non saranno belli. Sarà difficile tenere in casa o a distanza la gente, con un vaccino in giro. Poi, questa crisi finirà, ma gli scienziati dicono anche che ce ne saranno altre. Ma dentro la fotografia del mondo contenuta in Happydemia ci sono una serie di processi che erano iniziati prima e continueranno dopo comunque, e che l’epidemia, come una lente, ha mostrato.

Batti molto sul reddito universale.
Pagare le persone per consumare invece che per lavorare è un’idea che si imporrà necessariamente. È un’idea che ha una storia antica, mi ha colpito scoprire che persino Martin Luther King l’abbia proposta poco prima di essere ucciso. Ma esiste almeno dall’Ottocento e ha avuto momenti di fioritura e, altri, di disgrazia. Non è solo il M5S a suggerirla, o la politica dei sussidi pubblici. Persino essere pagati con uno sconto in cambio di una recensione va in quella direzione. Come diceva Marx, quando il capitale incontra una delle sue crisi cicliche deve inventare nuovi mercati. Anche in questo momento per garantire la continuità del consumo tocca inventarsi qualcosa. Per esempio, colonizzare il sonno, come fa Netflix.

Parlare di sussidi mi fa anche pensare ai ristori. Tu ti diverti molto con la lingua dei DPCM.
Conte è straordinario in questo. Ristori è un termine giuridico, ma a me fa pensare ai pascoli della transumanza. È una questione interessantissima di marketing, perché per ottenere, oggi, l’attenzione devi usare delle parole nuove. Ma Conte lo fa mescolando linguaggi antichissimi. E questa connessione tra la necessità di avere l’hasthtag giusto e il linguaggio risorgimentale o quello della “diligenza del buon padre di famiglia” dei manuali di diritto è comico. Ma efficace. Perché, poi, per strada senti davvero la gente parlare di “ristori”, o usare termini che, fino a pochi mesi fa, erano riservati ai convegni di scienza.  

Invece l’idiozia del signore della Confindustria di Macerata, secondo te, è una cosa condivisa non solo tra gli industriali?
È una cosa condivisa da molti, ma è giusto che nessuno abbia il coraggio di dirla ad alta voce. Come ha detto Zaia, il pensiero strisciante è che i vecchi, in fondo, hanno meno diritto di vivere dei giovani. E anche qui, il conflitto generazionale c’era da prima, ma la pandemia l’ha mostrato in una maniera drammatica. I due personaggi centrali di Happydemia sono, per l’appunto, un nonno e un nipote. Credo che il centro del libro, la sintesi, sia quella scena in cui il nonno gli dice “io voglio vivere” e il nipote risponde “voglio vivere anch’io”. Perché per uno vivere è stare in casa, mentre per l’altro vivere è uscire.

È una cosa che anche molti adulti faticano a capire. Continuando solo a chiedere ai giovani di fare un anno di letargo perché, in fondo, hanno la vita davanti. Lasciano gli adolescenti a casa in modo da poter andare al lavoro.
E invece è una cosa che i giovani hanno accettato con un senso di responsabilità pazzesco. Che non gli viene neanche riconosciuto, perché – anzi – continuano a essere colpevolizzati. Proprio come accadeva prima della pandemia quando gli dicevano, stupidi, guardate youtube, leggete i libri degli influencer, non volete lavorare, siete choosy. Tutto questo mentre gli adulti guardano tv trash e leggono libri meschini. Oggi li accusiamo di assembrarsi, quando gli adulti non lo fanno di meno e gli aprono le discoteche. La verità è che i giovani sono il capro espiatorio da anni. Perché sono pochi, e non possono difendersi. È il modo in cui noi adulti scarichiamo le nostre colpe e le nostre responsabilità. Dopodiché, se i miei figli mi dicono che non escono al pomeriggio, io sono contento. Ma è la contraddizione in cui siamo tutti. Credo che sia doveroso riconoscerlo almeno e, nel caso, sentirsi anche un po’ in colpa.

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