Fronte occidentaleServe una coalizione euro-atlantica per regolamentare il commercio con la Cina

Le pratiche economiche di Pechino sono una minaccia sia per il presidente eletto Joe Biden sia per l’Unione. Nonostante gli accordi bilaterali, il mercato cinese riserva ancora troppe zone grigie su trasparenza, prevedibilità e certezza legale delle condizioni di investimento. Un motivo in più per siglare un’intesa tra i 27 Stati membri e Washington

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È possibile (e auspicabile) una politica comune euro-atlantica versus la Cina? Fra i dossier su cui si misurerà la differenza fra la politica estera di Donald Trump e quella di Joe Biden ci saranno i rapporti con la Repubblica Popolare Cinese e, per la proprietà transitiva, la distanza o la vicinanza fra gli Stati Uniti e l’Unione europea in un teatro geopolitico sensibile come quello delle relazioni con l’Asia.

La maggior parte dei commentatori ha sottolineato che i primi cento giorni della presidenza Biden saranno dedicati principalmente alla politica interna come dimostra l’annunciato Recovery Plan dotato di 1.900 miliardi di dollari e la campagna di vaccinazione di massa.

La linea dei consiglieri del Presidente eletto e i suoi vested interests fanno invece prevedere una sostanziale continuità nelle relazioni con la Cina – seppure lasciando cadere il linguaggio demagogico e aggressivo di Donald Trump dopo una iniziale apertura – e nel sostegno alle big tech statunitensi per rafforzare la loro competitività di fronte ai colossi produttivi cinesi nelle nuove tecnologie.

Si tratta di due terreni su cui si giocheranno le differenti se non le divergenti priorità strategiche fra le due rive dell’Atlantico. Come sappiamo, i governi europei dei 27 hanno annunciato il 30 dicembre 2020 la loro volontà di sottoscrivere con la Cina, dopo sette anni di negoziati, un accordo bilaterale per gli investimenti (Comprehensive Agreement on Investment) presentato come un successo per le capacità competitive europee sul mercato cinese. Un annuncio che ha suscitato critiche da parte della nuova amministrazione statunitense spingendo il futuro consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ad auspicare che «i partner europei si confrontino con le nostre preoccupazioni comuni sulle pratiche economiche della Cina».

I governi europei, adottando il Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027, hanno d’altra parte confermato la loro volontà di introdurre fra le nuove risorse proprie le imposte sul web (web tax) destinate a colpire soprattutto i Five Giants del GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), che – pur essendo fra di loro concorrenti – agiscono insieme contro la zona di influenza cinese che si identifica nell’acronimo BATX (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi).

Se Joe Biden vorrà dare un segnale della sua volontà di difendere i diritti fondamentali nel mondo oltre che negli Stati Uniti, uno dei primi terreni di conflitto con la Cina dovrà essere l’impegno al rispetto delle convenzioni internazionali, che è costantemente violato dalla Repubblica popolare cinese nella regione occidentale dello Xinjiang con i trattamenti disumani cui è sottoposta la minoranza mussulmana degli uiguri (per non parlare della situazione a Hong Kong e nel Tibet). 

Sulla questione dello Xinjiang il nuovo presidente americano troverà la partecipe attenzione del Parlamento europeo, che ha adottato una dura presa di posizione contro la Cina il 17 dicembre 2020 in cui proponeva il bando delle importazioni di prodotti sospettati di essere legati al lavoro forzato uiguro e contestava l’assenza di qualunque impegno cinese per la soppressione del lavoro forzato – sapendo che l’Assemblea sarà chiamata a dare il suo parere conforme sul Comprehensive Agreement on Investment (art. 218 TFUE).

Sul tema delle relazioni commerciali con la Cina, la commissione per il commercio internazionale del Parlamento Europeo aveva del resto organizzato il 9 novembre 2020 una audizione sul Comprehensive Agreement on Investment dopo il COVID-19. Nessuna disponibilità al compromesso ci sarà invece a Bruxelles nei palazzi della Commissione, del Parlamento europeo e del Consiglio sulla web tax se verrà mantenuto l’impegno di tassare i Big Tech entro il 2023, anche se non sarà trovato un accordo fra Stati Uniti e Ue all’interno dell’Ocse.

Noi siamo convinti che la difesa dei diritti fondamentali deve essere parte essenziale della autonomia strategica dell’Unione europea affinché il suo ruolo di attore planetario venga affermato con coerenza in tutte le sedi internazionali, a cominciare dagli incontri del G20 che si terranno in Italia dalla prima riunione degli sherpa dei capi di Stato e di governo del prossimo 21-22 gennaio fino al Vertice dei leader a Roma nella Nuvola di Massimiliano Fuksas il 30 e 31 ottobre 2021. La stessa coerenza deve essere affermata con la stessa determinazione all’interno dell’Ue nei confronti delle persistenti violazioni dello stato di diritto in Polonia e Ungheria così come la Commissione e il Parlamento europeo dovrebbero prestare maggiore attenzione a fenomeni di corruzione che toccano ormai molti paesi membri dell’Unione europea.

Poiché il Comprehensive Agreement on Investment ha come obiettivo quello di migliorare per entrambe le parti l’accesso ai mercati europeo e cinese con particolare riferimento alla trasparenza, alla prevedibilità e alla certezza legale delle condizioni di investimento, varrebbe la pena di ricordare alla commissione per il commercio del Parlamento europeo che, con la direttiva 2006/42/CE, i prodotti europei contengono una certificazione di qualità con la marcatura CE (Comunità Europea) e che le aziende cinesi, per aggirare la certificazione di qualità, hanno creato un marchio CE (China Export) accompagnato talvolta dall’indicazione made in China o talaltra dall’indicazione più criptica per il consumatore europeo made in PRC (People Republic of China) o ancora da nessuna indicazione.

Dopo anni di mancati interventi su questa palese forma di contraffazione, la questione è stata affrontata per ora dalla magistratura ordinaria in alcuni paesi europei e in particolare dalla Cassazione italiana che, non potendo portare in giudizio l’azienda cinese, ha condannato nel 2018 il dettagliante italiano per frode in commercio. La Cassazione ha evidenziato che, ai fini della sussistenza del reato di frode, basta la semplice messa in vendita di un bene difforme da quello dichiarato «creando una divergenza qualitativa che configura l’illecito penale». 

Nonostante centinaia di sequestri da parte delle forze dell’ordine e il blocco alle frontiere europee di tonnellate di beni provenienti dalla Cina o dal Vietnam o dalla Corea del Nord, continuano a circolare nell’Unione europea i prodotti cinesi con il marchio contraffatto che inganna e spesso danneggia i consumatori europei.

La commissione per il commercio internazionale del Parlamento europeo dovrebbe chiedere che sia inserita nel Comprehensive Agreement on Investment una clausola che obblighi le autorità cinese a imporre alle aziende di quel paese la soppressione del marchio contraffatto China Export ed avviare contemporaneamente una iniziativa legislativa sulla base dell’art. 225 TFUE per chiedere alla Commissione europea di sottoporre al Consiglio e al Parlamento europeo una proposta di modifica della Direttiva 2006/42/CE che sostituisca il marchio CE (Comunità Europea) con un marchio UE (Unione europea), sollecitando allo stesso tempo la Commissione a sollevare la questione davanti alla Organizzazione Mondiale del Commercio che, pur non avendo potere esecutivo, può raccomandare che le pratiche commerciali cinesi siano rese compatibili con gli accordi internazionali.

Siamo convinti che su questa questione sarà possibile trovare rapidamente un terreno di intesa con gli Stati Uniti (e molto probabilmente anche con il Giappone) all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

*Pier Virgilio Dastoli è il presidente del Movimento Europeo – Italia