Tra storia, cronaca e grande letteraturaChiavi di lettura per comprendere la mossa di Matteo Renzi

Il leader di Italia viva ha agito come uno scacchista che cerca di prevedere i dieci movimenti successivi: sa che la legislatura non finirà in anticipo e che all’orizzonte si intravede un governo tecnico o politico, ma senza Conte. E se alle prossime elezioni dovesse avere la meglio il duo Salvini-Meloni, allora il contraccolpo sarebbe soprattutto su Cinquestelle e Partito democratico

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Tra le prime nozioni di storia che si apprendono a scuola c’è l’espressione casus belli, l’evento casuale o pianificato che interrompe un equilibrio sociale o geopolitico, già precario, facendo deflagrare contraddizioni, rivoluzioni, conflitti.

Gli autori non sempre furono personaggi noti, anzi, sovente, furono perfetti sconosciuti di molti dei quali si è dimenticato il nome; restano per i più dotati di memoria quelli di Gavrilo Princip l’attentatore di Sarajevo, di Gaetano Bresci il regicida di Monza, di John Wilkes Booth l’assassino di Abraham Lincoln, di Lee Harvey Oswald il controverso responsabile della morte di John Kennedy e pochi altri su cui svetta, primo in assoluto, Marco Giunio Bruto che nelle Idi di marzo del 44 avanti Cristo, pose fine, insieme agli altri congiurati, alle mire imperiali di Caio Giulio Cesare che minacciavano l’ integrità della repubblica. E quale seguito della vicenda, riecheggiò la storica minaccia: «Ci rivedremo a Filippi» come narra Plutarco ne “Le vite parallele”. Lo abbiamo sentito nuovamente in questi giorni.

Benito Mussolini e Adolf Hitler poterono proseguire la propria azione e consolidare il proprio potere grazie al fallimento degli attentati portati dal quattordicenne Anteo Zamboni a Bologna nel 1926 e da Klaus Schenk von Stauffenberg nella Tana del Lupo a Rastemburg nel 1944, il cui testamento è contenuto in queste parole: «È tempo ormai di fare qualcosa. Ma chi esita ad agire deve aver chiaro in coscienza che passerà alla storia come traditore e, se omette del tutto di agire, sarebbe un traditore di fronte alla propria coscienza». La ricostruzione cinematografica del tentativo di riscatto a opera di militari tedeschi non nazisti fu realizzata nel 2008, con il titolo “Operazione Valchiria”, dal regista Bryan Singer e con Tom Cruise nella parte del protagonista.

In altre occasioni il casus belli si è configurato come pretesto: un minuscolo territorio conteso, la morte naturale ma improvvisa di un condottiero, l’estinzione di una dinastia regnante, il tramonto repentino di un leader. D’altronde non fu forse Fedro a narrare la storia del lupo che, pur trovandosi a monte del corso del fiume, accusò l’agnello che beveva a valle di intorbidargli l’acqua?

Fatte le debite proporzioni tra uomini ed eventi, è lecito chiedersi se nel caso dello strappo operato da Matteo Renzi nei confronti del governo Conte bis, da lui stesso voluto nel settembre del 2019, ci si trovi davanti a un pretesto o a un casus belli che si sarebbe manifestato comunque in altri momenti, con attori diversi e che le vicende collegate alla pandemia hanno soltanto posticipato e accelerato.

In queste ore si stanno affastellando le diagnosi più ardite, in genere fondate sulle caratteristiche personali e politiche di Matteo Renzi, sulle sue mire per ottenere maggior potere nella compagine governativa atte a incrementarne l’attuale peso politico o sulla presunta necessità di far crescere figure a lui molto legate da antichi e intensi rapporti amicali.

Considerata la portata dell’accaduto, si tratta di ipotesi che rivelano ancora una volta la difficoltà del ceto politico attuale di spingere lo sguardo al di là del proprio seggio, fortunosamente conquistato nella lotteria del 2018 che abbiamo chiamato, nonostante tutto, elezioni politiche nazionali.

Proverò ad allargare il campo visivo a partire dalle vicende domestiche. Poco dopo il giuramento dei ministri del governo Conte bis, Matteo Renzi lascia il Partito democratico del quale, nonostante la promessa del ritiro dalla vita politica dopo il fallimento del referendum costituzionale del 2016, aveva mantenuto la segreteria fino alle elezioni del 2018.

In virtù dell’attuale legge elettorale larga parte dei parlamentari gli erano “debitori” del seggio e forse su questo puntava per svuotare il Partito attraverso la creazione di Italia Viva. Pur lasciandovi, ad avviso di chi scrive, molti agenti all’Avana, l’operazione del nuovo partito, ospite in entrambe le Camere del simbolo del socialista Alfredo Nencini – presentato in campagna elettorale attraverso una lista “Insieme” con verdi, socialisti e prodiani in cui fu l’unico eletto risiedendo nel gruppo misto, fino all’arrivo di Renzi e dei suoi – l’operazione non è riuscita nella misura sperata: 29 deputati su 630 alla Camera, 17 senatori su 321 a Palazzo Madama, 13 consiglieri regionali su 897, 1 seggio al Parlamento europeo sui 76 italiani, grazie al subentro di Nicola Danti che prese il posto di Roberto Gualtieri, frattanto diventato ministro del Conte bis in quota dem.

Maggior seguito, in proporzione, il nuovo soggetto ha avuto nei consigli comunali disseminati in ogni parte d’Italia.

Renzi è nato nel 1975, è un post democristiano per tradizione familiare, ama più Giorgio La Pira che Giuseppe Dossetti ed è cresciuto nell’Agesci, il vasto movimento degli scout italiani dall’avanzata coscienza democratica, riconosciuto dalla Conferenza episcopale italiana e dagli Uffici mondiali dello scautismo e del guidismo, dove ha ricoperto incarichi nazionali nella comunicazione associativa e da cui ha attinto a piene mani parlamentari e ministri.

Dopo una breve parentesi adolescenziale nella Rete di Leoluca Orlando, è passato al Partito democratico, diventando giovanissimo presidente della Provincia di Firenze e poi sindaco del capoluogo toscano. Il seguito è noto al pari dei profondi cambiamenti impressi al partito di Pier Luigi Bersani in direzione liberale e mai abbastanza accettati, a partire dalla “rottamazione” che equivaleva a una minaccia di epurazione degli anziani quadri provenienti in larga misura dal Partito comunista italiano e dai soggetti succedanei.

È innegabile che molti di essi avessero nostalgia del Muro di Berlino e che, dalla disfatta subita nel 1994 dalla gioiosa macchina da guerra guidata da Achille Occhetto in poi, fossero stati costretti a mimetizzarsi dietro il volto, più presentabile ai moderati, di Romano Prodi, accettando persino Matteo Renzi come segretario nazionale, salvo poi fargli una guerra sotterranea e costante.

Le prime scintille tra Italia viva ed il Partito democratico si evidenziano in due momenti esiziali: l’abbandono della battaglia sullo Ius soli, il lento ed esitante smontaggio dei decreti sicurezza di Matteo Salvini e, da ultimo, l’appiattimento sul Movimento cinquestelle e l’acquiescenza di Zingaretti in merito alla campagna referendaria sulla riduzione del numero dei parlamentari, cosa molto diversa dalla nuova missione da dare al Senato nell’ambito del fallito tentativo di riforma costituzionale del 2016. In quattro mesi sarebbe stato già abbastanza per preparare una dissociazione dalla maggioranza.

Poi sono arrivati il Covid-19, il progressivo esautoramento del Parlamento, il diluvio di Dpcm, l’Italia dai colori determinati dalle spintarella di potentati e di clientele locali, i rapporti con l’Unione europea in merito alla preparazione di NextGenerationEu, tradotto miseramente in Italia con il triste termine Recovery Fund prima e Plan dopo, con le relative logiche di spese per investimento versus interventi settoriali o corporativi; per non parlare di reddito di cittadinanza, di quota cento e della malcelata aspirazione di Giuseppe Conte di diventare, da grande camaleonte, il soggetto in grado di rappresentare la sintesi del centrosinistra italiano come imprudentemente dichiarato da Nicola Zingaretti.

Nonostante un certo successivo ravvedimento, il quadrato che oggi il Partito Democratico prepara intorno all’avvocato del popolo segna un significativo e ulteriore appiattimento sul Movimento cinquestelle cui il premier rimane organico, nonostante alcune dichiarazioni di facciata. E, per garantirsi i voti dei nipotini di Beppe Grillo, è ora disposto ad accogliere senza pudore anche transfughi alla ricerca disperata dei pochi seggi disponibili nel 2023, nel Parlamento incautamente miniaturizzato.

Li chiamano “costruttori” recando offesa al capo dello Stato che, nel messaggio di fine anno, con tale termine non intendeva certo riferirsi a una dozzina di disperati in cerca di salvezza a qualunque costo. Ma tale è purtroppo il grado di educazione istituzionale che connota chi, infantilmente, si spinse a minacciare l’impeachment, non di Donald Trump ma di Sergio Mattarella. Rise tutt’Italia e, quel che è peggio, il mondo intero.

Posto che ci riescano, avranno sacrificato sull’altare di Conte i brandelli di un’antica dignità e il 21 gennaio 2021 sarà il centenario della nascita del Partito comunista a Livorno e l’anno della sua scomparsa ideale a Roma, a opera di tardi epigoni preoccupati di conservare se stessi e inadeguati a capire lo spirito del tempo.

Sul piano internazionale la divaricazione è stata totale sin dai tempi del tweet di Donald Trump su “Giuseppi” esibito con orgoglio da Conte il quale nei giorni scorsi, davanti ai fatti di Capitol Hill, si è limitato a espressioni di circostanza di condanna della violenza piuttosto che esecrarne l’ispiratore con nome e cognome. Joe Biden non dimenticherà e Matteo Renzi lo sa bene.

In queste ore drammatiche sembra archiviata la liaison di Luigi Di Maio con i Gilet Gialli durante il Conte 1 e la mancata protesta con la Cina di Xi Jinping – di cui si sarebbe avvertito il bisogno durante la rivolta di Hong Kong, la “rieducazione” forzosa del popolo degli Uiguri e le minacce a Taiwan – e a cui si è preferito l’acquisto di banchi a rotelle e presto di siringhe e magari anche di vaccini non sottoposti a controllo Ema. E non minori preoccupazioni animano quanti fanno professione di onestà intellettuale ove si pensi che Giuseppe Conte è già in carica per presiedere il G20 del prossimo settembre, della cui importanza capitale per il futuro del mondo ho già scritto.

In Europa, Conte ostenta una grande confidenza con Ursula von der Leyen e si illude di riscuotere il credito derivante dal sostegno alla sua elezione a presidente della Commissione. Cambiali non sufficienti a pagare il conto che sarà presto presentato dalle regole del piano europeo e che potrebbero portare a un inevitabile scontro che neanche Angela Merkel potrà mediare a sufficienza, mentre incombono i Paesi frugali.

Mentre permane l’ostinazione tutta ideologica circa i fondi Mes per la Sanità che non hanno condizioni maggiori di quelle previste per gli altri fondi, il dato più sconcertante di queste ore è l’ammissione da parte dei partiti della maggioranza e non solo, che, senza il contributo essenziale di Italia viva, avremmo spedito a Bruxelles un paio di risme di carta straccia che ci avrebbero esposto al ridicolo, dando a qualcuno la scusa per evocare il “cigno nero” il cui sogno alberga ancora, ben occultato da un europeismo di convenienza, nel cuore di tenebra dei nipotini di Grillo. Ne avremmo ricavato duecentonove miliardi di crepitanti sberleffi.

L’accusa poi di mettere in difficoltà il Paese durante la ripresa della pandemia non tiene conto di due elementi essenziali. Il primo riguarda il fatto che, sul piano economico, l’Italia era in ginocchio già prima della diffusione del contagio a motivo dell’ostinazione del Conte 1 e dei propri sodali contro l’Unione europea di allora e dell’ossessione dei migranti, accusa da cui toccherà ora a Giuseppe Conte difendersi per sostanziare dinanzi al tribunale di Palermo l’asserita estraneità circa le iniziative del proprio ministro degli Affari interni.

La seconda riguarda la piena ignoranza di quanto accaduto in passato nella storia europea. A quanti, e non tutti in buona fede, argomentano sul tema della non opportunità di sostituire il presidente del Consiglio, a legislatura vigente e durante la pandemia da molti paragonata giustamente a una guerra, mi limito a ricordare tre esempi tratti dalla storia del XX secolo.

In pieno disastro di Caporetto, il generale Luigi Cadorna fu sostituito da Armando Diaz e fu Vittorio Veneto; nell’ora più difficile del Regno Unito, Clement Attlee lasciò il posto, a Parlamento invariato, al pur discusso Winston Churchill che contenne l’avanzata dei nazisti in attesa dell’intervento degli Stati Uniti; nella sconfitta già annunciata nel 1943 Benito Mussolini fu sostituito da Pietro Badoglio e l’Italia poté liberarsi dal Fascismo e dialogare con gli Alleati.

Quindi, senza fare paragoni impossibili tra le diverse figure politiche del passato e del presente, il cambiare il comandante in capo durante un’emergenza a cui egli fa fronte con molta difficoltà può ribaltare il destino del Paese.

È legittimo esprimere il dubbio che Matteo Renzi abbia forzato il gioco, creando il già evocato casus belli, anche in nome e per conto di chi non poteva esprimersi con altrettanta clamorosa chiarezza? È consentito avanzare l’ipotesi che mettere in gioco il proprio futuro politico, andando incontro alla feroce impopolarità di queste ore, sia il prezzo accettato, al di là di ogni retorica, per salvare il Paese dall’onda populista che cerca di mimetizzarsi dietro la candida pochette?

Infine, alcune semplici considerazioni per spiegare la mossa di Renzi, fuori dalla banalità della storia delle poltrone, dimostratasi alla luce dei fatti la consueta e frusta liturgia celebrata senza fantasia da chi non ha altri argomenti.

Con la mossa di Renzi, che non è da pokerista ma da scacchista, che prevede non il prossimo movimento ma gli ulteriori dieci, la legislatura non finirà in modo anticipato, si profila un governo tecnico o politico ma senza Conte, si potrà eleggere il capo dello Stato in sicurezza. Ove, nonostante gli auspicati due anni di governo guidato in modo diverso riuscendo a spostare i consensi di quel ceto medio oggi orientato verso Matteo Salvini e Giorgia Meloni, la destra dovesse vincere comunque le prossime elezioni, scomparirà il Movimento cinque stelle e sarà il Partito democratico a pagare il prezzo più alto.

A quel punto, Matteo Renzi sarà pronto a guidare la resistenza, poiché in nessun altro modo potrà essere definita l’eventuale opposizione, avendo preso per tempo le distanze dall’attuale maggioranza e da chi la governa.

Dall’“Amleto” di quel William Shakespeare, o chi per lui, che seppe scrivere di ogni passione umana individuale e collettiva, ci giunge un grande insegnamento, rivissuto in anni non troppo lontani in una già fredda fine estate, affacciati sugli spalti del Castello di Helsingor. Nel tragico finale del dramma la sorella Ofelia impazzita si annega, la regina Gertrude beve per errore il veleno preparato dal re Claudio per il nipote/figliastro di cui ha ucciso il padre con lo stesso mezzo, e Laerte e Amleto si scannano con fioretti intrisi di essenze mortali; nell’ultimo spasmo il principe, finalmente ma tardivamente deciso, trafigge anche Claudio vendicando così il proprio padre.

Sopraggiunge il ciambellano Polonio: annuncia che Fortebraccio, il principe di Norvegia il cui genitore era stato ucciso dal padre di Amleto e che intendeva vendicarsi acquisendo prima o poi il regno danese sta per tornare vittorioso dalla Polonia alla cui conquista si era dedicato nel frattempo, allontanandosi dalla corte.

Amleto e Fortebraccio sono coetanei e cugini, portano il medesimo nome dei rispettivi genitori ma hanno due caratteri opposti: il primo è perennemente succube dello spettro paterno, è travagliato da intensi rimorsi, si tormenta in infiniti soliloqui, medita il suicidio, brama il conforto dei propri sicofanti e lascia che le cose precipitino sino all’epilogo drammatico in cui tutti periranno; l’altro è animato dal medesimo sentimento di giustizia, ma reagisce in modo vitale dando spazio ai propri impulsi e procede deciso nel proprio intento di sconfiggere intanto la Polonia e di presentarsi poi vincitore per sottomettere la Danimarca e compiere la propria vendetta.

Il suo essere altrove, lontano dalle faide della corte di cui prima o poi sarebbe stato anch’egli vittima, lo avrà salvato e, senza colpo ferire, sarà il nuovo sovrano del regno unificato di Danimarca e Norvegia che durerà con alterne vicende fino al 1814.

Davanti allo scempio dei corpi riversi in un lago di sangue, a conclusione del dramma, Fortebraccio ha parole di pietà per l’infelice e, in realtà, inadeguato cugino: «Quattro miei capitani mettano il corpo d’Amleto su un palco, così come s’addice a un soldato: perché se fosse stato lui sul trono, si sarebbe mostrato un buon sovrano. Diamo il nostro saluto al suo trapasso con musiche e con riti militari. Gli altri corpi toglieteli alla vista: è una vista da campo di battaglia e s’addice assai male a questo luogo. E s’ordini alla truppa di sparare».