Ritardi, personale in ferie ed errori marchiani di organizzazione. È questo il risultato palese dei primi giorni della campagna di vaccinazione in Italia. Un falsa partenza condizionata da molti fattori, complici sia le inefficienze regionali sia le difficoltà gestionali fin qui mostrate dal commissario straordinario Domenico Arcuri.
Ieri per le Regioni è partita ufficialmente la prima giornata di vaccinazioni dedicata al personale sanitario e alle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa). Al momento in tutta Italia sono state vaccinate 178.939 persone sulle 469.950 dosi disponibili. Finora è stato utilizzato solo il 37,3 % delle dosi disponibili, e oggi dovrebbero essere consegnate altre 469.950 dosi inviate da Pfizer.
A marzo comincerà invece la vaccinazione degli anziani, mentre il governo cerca di prepararsi al piano per la fase 2. Prenotazioni online, con app e sms, numero verde, nuovi centri vaccinali in gazebo, ambulatori, palazzetti oltre a un unico sistema informatico nazionale che dovrà raccordare quelli dei vari territori. Una staffetta di massa che per gran parte degli italiani inizierà dopo gli operatori sanitari e ospiti delle Rsa (presumibilmente a fine gennaio), persone fragili, docenti, forze dell’ordine e detenuti. E che già adesso mostra tutte le sue fragilità.
Per la fase 2 sono infatti previsti in tutto circa 1.500 siti in cui verrà effettuata la vaccinazione, ma le tempistiche saranno necessariamente legate al progressivo arrivo delle dosi. Arcuri ha addirittura ammesso che l’elenco completo dei centri vaccinali designati per la somministrazione del vaccino contro il coronavirus è «ancora in divenire». Questo significa, sopratutto per le Regioni già in difficoltà, non avere disposizioni precise in merito alle sedi e alla mole di operatori sanitari necessari per poter inoculare le dosi fino all’ultimo minuto.
Nel frattempo, in cantiere rimane una piattaforma di tracciamento (di Eni e Poste) e forse un’anagrafe nazionale. Si attendono anche i 15mila tra medici e infermieri reclutati via bando da Arcuri e la ripresa del piano dei tamponi, dimezzato a dicembre rispetto a novembre. Il tracciamento dei contagi tramite il tampone è infatti passato da circa 1,5 milioni a settimana a poco più di 900.000. Lo indica l’analisi dei dati condotta dal fisico Giorgio Sestili e confermata dal virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano. «È un calo molto importante (dei tamponi ndr), che può essere positivo se legato al fatto che si abbassa la curva dei contagi, in quanto se meno persone hanno i sintomi c’è meno richiesta, ma è negativo se vediamo salire il rapporto fra casi positivi e tamponi, come sta accadendo in questi giorni», ha osservato Sestili.
Per quanto riguarda le Regioni, la Lombardia, per esempio, è tra quelle più in crisi in questi primi giorni. Fino a domenica 3 gennaio la regione di Attilio Fontana era tra quelle che hanno utilizzato meno i vaccini già a disposizione: negli ospedali lombardi, infatti, sono state vaccinate 3.126 persone, appena il 3,9% delle 80.505 dosi disponibili. Giulio Gallera, assessore alla Salute in Lombardia, si è difeso spiegando che non poteva richiamare i medici dalle ferie e annunciando nella giornata di ieri circa 6.000 vaccinazioni al giorno nei 65 hub regionali, che dovrebbero salire a 10-15 mila entro pochi giorni. Numeri comunque inaccettabili per molti sindaci lombardi, in quanto anche 15mila vaccinazioni al giorno richiederebbero oltre un anno e mezzo per vaccinare il 70% della popolazione.
La prima fase della campagna vaccinale in Italia dovrebbe essere relativamente la più semplice, perché coinvolge soprattutto medici e infermieri. Per questo «avrebbe dovuto essere, in teoria, la fase più veloce, e molti si aspettavano che fosse già tutto pronto e che poche dosi dovessero attendere nei freezer prima di essere somministrate» spiega a Linkiesta un dirigente della regione Lombardia.
Ma non è così. E assieme alla Lombardia si aggiungo in coda tra le regioni più in ritardo anche Sardegna, Abruzzo e Calabria. L’amministrazione governata da Christian Solinas non sembra avere fretta e annuncia che partirà il 7 gennaio. In Calabria la campagna vaccinale è iniziata lunedì 4 gennaio, ma la regione sta valutando di cambiare completamente organizzazione. «Inizialmente abbiamo lasciato l’organizzazione della campagna vaccinale alle singole aziende, nel rispetto della loro autonomia, ma stiamo valutando di riprendere in mano la situazione con un centralismo organizzativo», ha detto Antonio Belcastro, responsabile dell’emergenza Covid in Calabria. Anche la Calabria ha denunciato mancanza di personale, e ammesso che sono stati dati giorni di ferie agli operatori sanitari. Problemi al quale si aggiunge il cambio al vertice con l’arrivo del commissario alla sanità Guido Longo, che porterà un ricambio completo dei dirigenti delle aziende ospedaliere.
Nessun problema per l’Emilia-Romagna, almeno seconde le dichiarazioni ufficiali. «Il cronoprogramma va a regime dal 4 gennaio» ha spiegato l’assessore regionale alla Sanità Raffaele Donini. La Liguria è solo al 16,2% di copertura delle dosi arrivate, ma il governatore Giovanni Toti ha spiegato che l’inizio a rilento è dovuto a un problema, poi risolto, legato alla fornitura delle siringhe da parte del commissario Domenico Arcuri: il presidente ha detto che la Liguria ha ricevuto solo siringhe da 5 e da 3 millilitri che servono a diluire il farmaco, ma non a somministrarlo.
Anche la regione Molise ha ricevuto siringhe non idonee alla somministrazione, e nei giorni scorsi sono state usate le prime scorte delle aziende sanitarie in attesa dell’arrivo delle nuove siringhe da parte della struttura commissariale. Sempre in Molise si reclutano volontari negli ospedali, pagati 25 euro lordi dopo il normale orario di servizio.
Problema diverso invece per il Lazio (48,7%), al momento in testa alla classifica per il numero di dosi a disposizione già utilizzate (dopo la provincia autonoma di Trento con il 54,8%). La regione di Zingaretti fatica a garantire, a oggi, il secondo richiamo del vaccino. Alessio D’Amato, assessore alla Sanità della Regione Lazio, ammette alla Stampa: «Teniamo sempre una quota residuale di fiale per garantire al 21° giorno i richiami. Ogni settimana somministriamo due terzi delle dosi che riceviamo e un terzo lo tratteniamo».
Un procedimento che non potrà essere adottato anche quando saranno milioni i pazienti da immunizzare una prima e poi una seconda volta (pena l’efficacia del vaccino stesso). «Al momento stiamo tenendo un buon ritmo, ma non si può fare la prima dose e non essere sicuri di poter garantire la seconda nei tempi stabiliti» spiega un primario di Roma, di ruolo al Policlinico Umberto I. «Perciò abbiamo bisogno di più dosi e di una tabella di marcia con giorni e quantità di vaccini che verranno distribuiti precisa e dettagliata» conclude il medico.
La Toscana invece è stata l’unica Regione a dare la priorità alle Rsa, rispetto a medici e infermieri. La regione infatti fino a ieri aveva vaccinato 10.545 persone, delle quali 2.928 ospiti delle case di riposo, utilizzando il 37,8% delle 27.920 dosi ricevute da Pfizer. La macchina di vaccinazione della Toscana è stata calibrata per far bastare le dosi fino al prossimo arrivo, per evitare di restare a secco. «Non si parli di nostri ritardi. Piuttosto che contare quante dosi abbiamo utilizzato, per procedere più rapidamente il commissario Arcuri dovrebbe impegnarsi a farci avere un maggior numero di vaccini» ha risposto il governatore toscano Eugenio Giani al richiamo del commissario per l’emergenza Domenico Arcuri.
Infine, a essere dimenticati nel piano vaccinazione sono stati anche i caregiver (coloro che si prendono cura di familiari ammalati e/o disabili), e ancora poco chiara rimane la condizione dei disabili in comunità. «Da essere categorie a rischio nei mesi caldi della pandemia a essere dimenticati ora che si parla di vaccini il passo è stato breve: nel piano strategico vaccinale infatti non è chiaro se e quando saranno vaccinati i disabili che vivono in strutture residenziali sanitarie, né si citano i caregiver di malati a rischio, che per la natura stessa del loro impegno sono a stretto contatto fisico con persone che devono assolutamente essere protette dal coronavirus» svela il direttore dell’Osservatorio Malattie Rare, Ilaria Ciancaleoni Bartoli.