Il 21 ottobre scorso pubblicai su queste pagine un articolo dal titolo utilizzando il metodo cosiddetto “What if” ossia “cosa sarebbe accaduto se”, allargandomi sino ad ipotizzare i nomi che Draghi avrebbe scelto per i dicasteri più significativi. Un esercizio non certo di divinazione ma di retrospettiva e, al tempo stesso, di proiezione futura a partire dalla situazione di quei giorni in cui la curva dei contagi risaliva in modo consistente dopo la follie indotte dal Governo di Giuseppe Conte, che avevano illuso il Paese nonostante il parere contrario del CTS di non abbassare la guardia. Appena chiusi gli ombrelloni, si abbatteva la seconda ondata del contagio che, senza la contemporanea notizia della validazione dei primi vaccini, ci vedrebbe ancora nel buio di una disperazione sanitaria ed economica fuori controllo: l’Armageddon di una Civiltà.
Mentre un sospiro di sollievo si alza ora dall’intero Paese con vasta eco in tutto il mondo e si registrano con soddisfazione generale effetti benefici già immediati sul mercato borsistico e sullo spread, lascio alla pazienza del lettore la possibilità di rileggere quel testo. Tratterò qui i nuovi temi sul tappeto posti dal nuovo incarico che Mario Draghi ha accettato, pur con la rituale riserva da sciogliere dopo aver ascoltato le forze politiche.
Alcuni interrogativi nascono dalle prime dichiarazione di quasi tutti i leaders politici, ad eccezione di Silvio Berlusconi già sponsor di Draghi per la nomina a Presidente delle BCE. Ebbene, molti esponenti politici rispondono alle domande incalzanti dei giornalisti riguardanti l’intenzione di votare la fiducia in Parlamento al nuovo Esecutivo con vaghe argomentazioni, le più curiose delle quali sono l’attesa di conoscere le intenzioni del presidente incaricato in merito alle tre principali urgenze poste dal Capo dello Stato nei sette minuti più intensi del mandato fin qui svolto. C’è da chiedersi: ma dov’erano quando Mario Draghi interveniva al Meeting di Rimini lo scorso 18 agosto, delineando i fondamentali della visione economica e sociale che ha fatto il giro del mondo e spiegando il vero significato di Next Generation EU?
Capisco la rilevanza della data ai fini di un meritato o meno periodo di ferie in un anno molto particolare, ma non al punto da saltare le pagine che tutti i quotidiani dedicarono a quell’evento. Probabilmente, si erano fidati delle parole dell’avvocato del popolo che nel settembre del 2019 così aveva giudicato l’ormai ex presidente della BCE: «Avrei visto molto bene Draghi come presidente della Commissione europea e avevo cominciato a lavorarci con alcuni colleghi europei, ma lui mi disse che era stanco e voleva riposarsi un po’, credo che lo si tiri in ballo invano», ha rivelato Conte all’agenzia di stampa DIRE. Per poi aggiungere sul Fatto quotidiano: «Draghi? La mia sensazione è che quando si invochi il suo nome lo si tiri per la giacchetta. Non è un rivale, è una persona di valore, un’eccellenza che ha fatto molto bene nei ruoli che ha ricoperto». Un maldestro e volgare tentativo di archiviare il personaggio tra i tanti ex grandi che trascorrono il proprio tempo ad intervenire in convegni di ogni livello per nobilitarne il parterre.
Da sbellicarsi dalle risate, come in tante altre occasioni in cui il Tartarino di Tarascona si era gonfiato come la famosa rana, sicuro di non scoppiare come accadde a quella, pronunciando frasi roboanti, distribuendo regali al popolo e rassicurando i parlamentari circa l’impraticabilità di elezioni anticipate che prospettava per loro una momentanea eternità.
«Nel soffitto gli Dei, reclini su scranni dorati, guardavano in giú sorridenti e inesorabili come il cielo d’estate. Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburg, Penn. doveva nel 1943 provar loro il contrario». Gotterdammerung! Non si finisce mai di attingere al buon Tomasi di Lampedusa che di capitomboli di classi egemoni ben sin si intendeva, a partire dalla propria.
Le dichiarazioni strappate a forza dai giornalisti in perenne assedio a Montecitorio a molti parlamentari ancora sotto choc, rivelano volti spesso contratti e talvolta lividi che esprimono brevi e sussiegose dichiarazioni simili a quelle di illustri docenti cui viene richiesto un giudizio sugli esaminandi, e pensano di cavarsela con un laconico «vedremo». Nonostante le sghembe mascherine, la prossemica è implacabile e rivela lo sbandamento, l’apprensione, il terrore del redde rationem.
La verità è che non sanno proprio che pesci pigliare, mentre incombe all’orizzonte l’ombra di una massa di scatoloni che presto saranno riempiti per tornare a casa da mammà. Un’atmosfera di smobilitazione che ho ritrovato, dopo quarant’anni dall’averne ricavato la tesi di laurea, in queste notti tra le pagine del capolavoro di Thomas Mann I Buddenbrook in cui è descritto l’abbandono forzato da parte dell’omonima dinastia borghese della casa della Mengstrasse, a lungo dimora e sede operativa di una delle Ditte più famose della Lubecca di metà ottocento, in cui, sotto il tacco della Prussia, veniva schiacciato il passato glorioso e florido dell’autonomia secolare della Lega Anseatica.
In mancanza del Festival di Sanremo, si prepara quello delle mosche cocchiere che private perfino del cavallo su cui proliferare, intonano le prime lamentazioni all’insegna della banalità più assoluta. Cito a memoria: «Draghi non è eletto dal popolo !» «Un incarico calato dall’alto» «La fine della politica» come se il precedente, per ben due volte, fosse stato portato su ali di folla a Palazzo a Chigi (e chi scrive conosce quell’emozione quando è vera, come fu per l’elezione di Antonino Caponnetto a Palermo alle elezioni comunali del 1993). Come se il diluvio di DPCM fosse risalito dalle fogne anziché piovere dall’alto del balcone di Piazza Colonna; come se la politica non avesse già recitato l’ultimo atto nella Sala della Lupa soltanto poche ore fa. D’altra parte cosa pretendere da chi era ancora alle elementari quando Carlo Azeglio Ciampi assunse la guida dell’Esecutivo, prima di essere eletto al Colle e diventare, dopo Sandro Pertini, il presidente più amato dagli italiani?
Mentre la maggior parte dei media affronta con la consueta faccia di bronzo il traghettamento verso l’era Draghi, rivendico la posizione tenuta per molti mesi da pochi di noi (We happy, We happy few!) che non hanno ceduto agli illusionismi di Conte, alle buffonate di Casalino, alle grisaglie di Di Maio, alle giravolte del Partito Democratico avvelenato dai consigli scivolosi di “er saponetta” al secolo Goffredo Bettini, che stanno portando il partito alle seconda ed ultima Bolognina.
E se proprio la pigrizia di rileggerne i discorsi più recenti e potenti dovesse prevalere tra i parlamentari, è sufficiente conoscere il pensiero di Draghi attraverso la sua biografia che viene replicata, quasi ossessivamente da ogni notiziario – e ancora di più lo sarà nei prossimi giorni – e che può essere riassunta in tre espressioni: sviluppo sociale ed economico attraverso la distinzione certosina tra il debito buono e quello cattivo, rigore massimo nei confronti delle regole democratiche e degli impegni europei, supremo rispetto per il Parlamento, nonostante la fauna che in larga misura per ora lo popola. Per fortuna gli uomini passano ma le istituzioni restano, come recitava la prima lezione impartita ai futuri dirigenti di partiti ed aziende quando gli uni e le altre seppur paludate non avevano iniziato a liquefarsi, mal interpretando perfino il povero Sygmunt Bauman che, come Calvino, peraltro, di tutt’altro genere di trasformazione aveva scritto.
I mesi di gennaio e di febbraio del 2021 saranno ricordati come l’inverno dei traslochi eccellenti che stanno scuotendo il mondo. Primo tra tutti quello di Donald Trump con conseguente restyling dello Studio Ovale dove stanno tornando i ritratti dei Padri Fondatori, mentre viene rimosso il busto di Churchill (che pur non lo merita) per mandare all’altra sponda dell’Atlantico un messaggio di discontinuità rispetto a quel sodalizio isolazionista su cui i sovranisti britannici contavano. L’uscita di Giuseppe Conte da Palazzo Chigi in direzione Firenze dove probabilmente farà la sua ultima apparizione durante qualcuna delle celebrazioni dantesche, prima di dissolversi tra codici e pandette. Altri drammatici come l’uscita di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace 1991 ma non esente da ombre e contraddizioni della politica birmana dove ancora una volta si insedia una giunta militare con sullo sfondo l’inarrestabile egemonia cinese.
La boutade più recente riguardo la vexata quaestio: Mario Draghi presenterà alle Camere un governo tecnico o politico con spazi ministeriali ai partiti? Ora, posso capire che l’elastico delle mascherine possa limitare la piena espansione dei padiglioni auricolari, ma non fino al punto di non aver sentito le sofferte dichiarazioni del Presidente della Repubblica : «…Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica». Un mandato preciso, dunque, all’uomo cresciuto dai Padri Gesuiti dell’Istituto Massimo di Roma il cui motto è da sempre l’obbedienza “perinde ac cadaver” e che va inteso con la necessaria intelligenza: sì a selezionati tecnici di area (e Draghi i curricula sa leggerli bene in almeno tre lingue) no a segretari di partito, ex ministri o sottosegretari e soprattutto all’ex primo inquilino del Palazzo, pena la palese ed inimmaginabile contraddizione con le parole di Sergio Mattarella.
Insomma nelle stanze finora percorse con passo frettoloso dall’affannato avvocato del popolo in favore di telecamera, dovrebbero ora risuonare quelli felpati di chi sa camminare su sentieri difficili mantenendo l’imperturbabilità di chi sa il fatto suo e l’understatement che ne è corollario. Possiamo anche aspettarci significative modifiche delle modalità di comunicazione istituzionale che, portavoce a parte, non prevedo saranno affidate a tweet ma a ben più ponderati comunicati stampa ufficiali ed a un numero più contenuto di conferenze stampa su temi veramente cruciali.
Insomma né pochette, né pochade ma più autorevolezza, vero ed unico charme di cui il Paese ha un disperato bisogno per tornare a sperare in un futuro che non dovrà e non potrà essere un nostalgico ritorno a “com’era prima” perché il passaggio che la società italiana, come peraltro tutto il mondo, sta attraversando è di quelli che lasciano il segno, trasformando sentimenti, comportamenti e coscienze che solo una guida laica e morale oltre che politica può orientare prima dello smarrimento totale.
Il capolavoro di Mario Draghi sarà la presidenza del G20, un ambiente in cui si muoverà con la medesima scioltezza con cui in questi giorni lo abbiamo visto fare la spesa o acquistare i giornali. Non avrà bisogno degli inchini e delle piaggerie di Giuseppe Conte nel disperato tentativo di lasciare ad intendere di esistere e nemmeno del repertorio di barzellette e pacche sulle spalle di Silvio Berlusconi, sponsor, come già detto, ma maestro in nulla. Quanto sei Mario Draghi non ne hai bisogno, anzi le guardi con sospetto ed elegante fastidio, espresso da microscopiche pieghe agli angoli della bocca che durano un attimo, prima di distendersi in un sorriso amabile e caritatevole.
Santo subito allora? Certamente no. Uomo della Provvidenza? A lui che alla Provvidenza crede veramente non verrebbe mai in mente e lo dimostrerà anche con un galateo istituzionale che bandirà dal palazzo nani e ballerine che vi si sono abusivamente insediati dal 2018. E non si pensi di incontrarlo all’alba di ogni giorno mentre si reca in chiesa, circondato dalla scorta in una Roma deserta, come l’Andreotti/Divo di Paolo Sorrentino. Alla Messa, come peraltro è abitudine del Capo dello Stato, quando lo si incontra a Palermo, andrà, se potrà, di domenica con i familiari in orario normale, magari nella propria parrocchia insieme ad altre persone normali, poiché niente è più lontano dalla sua personalità della religiosità esibita e della spiritualità proclamata.
Chi è stato nominato nel luglio scorso da Papa Francesco componente di prestigio della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, non ha bisogno di sventolare il Rosario né di dichiarare il proprio santo protettore. E non a caso Sabino Cassese ha appena dichiarato: «Se non ce la fa lui che ha navigato le acque politico/finanziarie più pericolose del Pianeta, chi ce la potrà fare? Non esistono governi tecnici poiché il tecnico ti spedisce la fattura mentre il politico chiede la fiducia a più generazioni, comunque siano rappresentate in Parlamento». E su questo, come direbbe Forrest Gump, non ho altro da aggiungere, se non la speranza che i partiti cerchino altri e più seri argomenti.
Infine la domanda più importante: quali partiti e in quale misura la statura di Draghi, accompagnata dal massimo viatico del Quirinale, “spaccherà”? Giorgia Meloni, l’astro nascente della destra italiana ha già annunciato l’astensione, abbandonando i furori elettorali. La Lega potrebbe stancarsi di Matteo Salvini – il cui fascino ammaliatore risente della mancanza della piazza e la cui immagine sembra ormai usurata – e preparare una nuova leadership da proporre al Paese, frattanto purgato dalla cura Draghi, in tempo per le elezioni del 2023. Il Partito democratico, ob torto collo, farà qualche bizza e Nicola Zingaretti non avrà rossore nel dichiarare al prossimo inevitabile Congresso che tanto lui con il Movimento Cinque Stelle non voleva governare e che la massima sintesi della sinistra italiana non era Giuseppe Conte ma quella clorofilliana. Non vedo futuro al Largo del Nazareno.
Molti grillini, mentre si affrettano a segnare gli stipiti per non essere colpiti dall’angelo vendicatore, stanno affrontando i medesimi dubbi del popolo ebraico prima di intraprendere l’Esodo ed abbandonare la schiavitù di Casaleggio & Partners per la libertà del deserto nel quale però parecchi si perderanno, dopo l’ultima ridicola consultazione della base sulla piattaforma Rousseau che nessuno ha più interrogato da mesi, forse perché in arretrato con le quote di abbonamento.
E il MAIE o in qualunque altro modo si chiami il neo gruppo al Senato di quelli che furono i costruttori del nulla? Si affretteranno a proclamare che in buona fede volevano evitare le elezioni, parafrasando tra balbettii il Capo dello Stato? Torneranno da dove sono venuti cospargendosi il capo di cenere o non rinunceranno ai non piccoli privilegi a cui un gruppo politico ha diritto secondo i regolamenti parlamentari? Lo deciderà il decimo dei mohicani, prima di spegnere la luce e tornare nel gruppo misto.
Matteo Renzi, infine, incasserà presto il premio partita per i propri tecnici di area nelle decine di nomine cruciali che Draghi dovrà fare nelle aziende di stato, ma non per se, proiettandosi invece sempre di più sullo scenario internazionale dove anche per i rapporti tessuti con accortezza in questi anni non gli mancheranno incarichi prestigiosi all’ombra di Joe Biden e Kamala Harris. Come l’unico vero vincitore dell’Amleto, si sottrarrà alla carneficina dei partiti della terza repubblica e quando sarà il momento tornerà sulla scena domestica per tradurre in consenso l’eredità di Mario Draghi. Ha dalla sua parte l’età e il fiuto politico, doni rari nell’Italia dove la vecchiaia non fa sconti nemmeno ai politici.
Nel penultimo capitolo de “I Promessi Sposi” una pioggia salvifica porta via gli ultimi germi della peste ed apre una nuova epoca densa di futuro in cui germoglia una vita nuova:
«Appena infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzeretto e preso a diritta, per ritrovar la viottola di dov’era sboccato la mattina sotto le mura, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie. Renzo, in vece d’inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata, in quel susurrìo, in quel brulichìo dell’erbe e delle foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre; metteva certi respironi larghi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s’era fatto nel suo destino».
Un lavacro provvidenziale di cui tutti abbiamo bisogno per ricominciare a credere ed a sperare.