MicroplasticheIl sottovalutato inquinamento delle mascherine

Ogni mese usiamo 129 miliardi di dispositivi di protezione per il viso. Solo nel 2020 1,56 miliardi sono finite in mare. Oltre a disperdere il derivato del petrolio negli ecosistemi, questi oggetti possono accumulare e rilasciare sostanze chimiche e biologiche nocive, come il bisfenolo A, metalli pesanti e veicolare microrganismi patogeni

Pixabay

A livello globale, ogni mese utilizziamo 129 miliardi di mascherine, circa 3 milioni al minuto. Per la maggior parte usa e getta, sono realizzate con fibre di plastica microsize di spessore da 1 a 10 mm.

«Con l’aumento delle relazioni sul loro smaltimento inappropriato, è urgente riconoscere questa potenziale minaccia ambientale ed evitare che diventi il prossimo problema di inquinamento da plastica. Le plastiche di scarto sono oggi uno degli inquinanti ambientali più diffusi. Anche prima del Covid, ogni anno oltre 300 milioni di tonnellate di plastica venivano prodotte a livello globale e la maggior parte finiva in natura come rifiuto», sostengono i ricercatori Elvis Genbo Xu e Zhiyong Jason Ren in un articolo pubblicato su Frontiers of Environmental Science & Engineering.

Come ricordano i due studiosi, rispettivamente dell’Università del Southern Denmark e Princeton, i prodotti in plastica non sono facilmente biodegradabili ma si frammentano in particelle di plastica più piccole, quindi micro e nanoplastiche, che si diffondono negli ecosistemi. Le mascherine possono inoltre accumulare e rilasciare sostanze chimiche e biologiche nocive, come il bisfenolo A (considerato un interferente endocrino), metalli pesanti e veicolare microrganismi patogeni.

Secondo uno studio riportato da Oceans Asia, nel 2020 sarebbero confluite negli oceani 1,56 miliardi di mascherine. Se non adeguatamente raccolte e gestite, possono essere trasportate dalla terra in ambienti d’acqua dolce e marini da flussi fluviali, vento e animali.

L’ingestione di questi oggetti, scambiati dalla fauna per cibo, è nota per causare effetti avversi diretti ed esporre gli organismi a sostanze chimiche tossiche e microrganismi patogeni.

La produzione miliardaria di mascherine, nel marzo 2020 la sola Cina ne ha sfornate oltre 100milioni al giorno, è simile a quella delle bottiglie di plastica (43 miliardi al mese).

«Tuttavia – sottolineano i due ricercatori – a differenza delle bottiglie di plastica, delle quali circa il 25% viene riciclato, non esiste una guida ufficiale sul riciclo delle mascherine».

Le comuni mascherine chirurgiche usa e getta sono costituite da tre strati. Quello più esterno, che protegge dalle particelle liquide, è di materiale non assorbente (come il poliestere). Lo strato intermedio è composto da “tessuti non tessuti” (ad esempio, polipropilene e polistirolo) creati grazie a un processo di fusione che previene goccioline e aerosol attraverso un effetto elettrostatico. Lo strato interno è realizzato in materiale assorbente, come il cotone, per assorbire il vapore.

«Diversi polimeri – spiegano Genbo Xu e Zhiyong Jason Ren – vengono utilizzati nella produzione di mascherine, e il polipropilene in particolare: il loro alto utilizzo ha portato a un grande accumulo di rifiuti nell’ambiente. Qui le mascherine sono soggette a radiazioni solari e calore, ma la degradazione del polipropilene è ritardata a causa della sua elevata idrofobicità, alto peso molecolare, mancanza di un gruppo funzionale attivo e catena continua di unità di metilene ripetitive. Queste proprietà portano alla persistenza e all’accumulo nell’ambiente. Le intemperie possono generare un gran numero di particelle di polipropilene di micro-dimensioni in un periodo relativamente breve (settimane) e una ulteriore frammentazione in nanoplastiche».

«Questi impatti – sottolineano gli autori dell’articolo – possono essere amplificati da mascherine di ultima generazione per cui si utilizzano direttamente fibre di plastica di dimensioni nanometriche (di diametro inferiore a 1 mm) e aggiungono una nuova fonte di inquinamento. Tuttavia, non esistono dati sulla loro degradazione in natura, quindi non sappiamo come contribuiscono al gran numero di particelle di plastica rilevate nell’ambiente».

Proprio per questo, secondo i due ricercatori, la comunità di ricerca ambientale deve muoversi rapidamente per comprendere e mitigare questi rischi. Per esempio, «basandosi sul ripensamento critico delle tre ‘R’: regolare (valutazione del ciclo di vita su produzione, smaltimento e decontaminazione), riutilizzare (mascherine lavabili) e sostituire mascherine di plastica monouso con altre composte da materiali biodegradabili». In quest’ultimo caso, però, bisogna tener conto del costo più elevato e della sicurezza sconosciuta di nuovi materiali.

«È necessaria una ricerca interdisciplinare sul destino ambientale delle mascherine usa e getta, che riguarda il loro trasporto, accumulo, frammentazione, degrado, rilascio di micro e nanoplastiche, sostanze chimiche e agenti patogeni dannosi. […] Occorre incentivare sforzi coordinati da parte di scienziati ambientali, agenzie mediche e organizzazioni di gestione dei rifiuti solidi e dei cittadini in generale per ridurre al minimo gli impatti negativi di smaltimento e, infine, evitare che diventino un altro problema troppo grande da gestire».

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