Non c’è nessun rapporto tra scarsità vaccinale e brevetti, anzi questi sono l’unica garanzia che i vaccini possano essere resi disponibili. L’idea corrente è opposta perché quel termine – “brevetto” – rinvia a una realtà pressoché sconosciuta, ridisegnata in forma di odioso monopolio che senza giustificazione ingrassa le grandi compagnie e lascia a languire le moltitudini diseredate.
Secondo questa rappresentazione comune, pressappoco, ci sarebbero pochi vaccini perché un muro brevettuale ne impedisce l’accessibilità diffusa, assegnando a pochi prepotenti il diritto fabbricarli: col corollario che con meno brevetti avremmo più vaccini per tutti. Ma è possibile pensarla in questo modo solo grazie alla completa ignoranza di cosa sia un brevetto e delle ragioni per cui è assegnato.
Un brevetto è una cosa che accerta l’esistenza di un’invenzione brevettabile (non tutte le invenzioni sono brevettabili) e costituisce, per un certo tempo, il diritto di trarne profitto in modo esclusivo (c.d. ius excludendi).
Quella precisazione (“per un certo tempo”) denuncia il fondamento del sistema di proprietà industriale e rappresenta il dettaglio che sfugge alle retoriche anti-brevettuali: l’acquisizione in esclusiva monopolistica garantita dal brevetto è limitata nel tempo, non è perpetua, non è per sempre e, al giro di boa, cioè scaduto il termine, l’invenzione cade in pubblico dominio, tutti possono realizzarla, tutti possono trarne profitto. Dice: ma perché bisogna riconoscere questa esclusiva al titolare del brevetto, se c’è un’invenzione che immediatamente potrebbe essere attuata da una pluralità di operatori, con vantaggio comune?
Risposta: perché l’invenzione non ci sarebbe stata se chi l’ha fatta non avesse avuto la prospettiva del brevetto, cioè la prospettiva di guadagnarci qualcosa. I risultati inventivi non arrivano gratis: per sperare di ottenerne, occorre investire, fare ricerca, organizzare stabilimenti e laboratori ed equipaggiarli di macchine e intelligenze, insomma serve spendere soldi.
E nessuno fa nulla di tutto questo se non è stimolato a farlo in vista di un guadagno: questo guadagno è il brevetto, vale a dire la possibilità di ricavare un profitto dall’invenzione in modo esclusivo. Non per sempre, appunto, ma almeno per un po’: per il tempo necessario a vedere congruamente remunerato il lavoro inventivo e l’impegno che lo ha sostenuto. L’alternativa non è un’invenzione senza brevetto, cioè subito disponibile per la riproduzione da parte di chiunque: l’alternativa è l’invenzione che non c’è, e il paradiso senza brevetti con più vaccini per tutti fa posto alla realtà viral-solidale dei vaccini per nessuno.
Il brevetto è un limite, ragionato, alla concorrenza: nell’idea che il “premio” all’invenzione, cioè il brevetto, garantisca il duplice effetto di stimolare l’avanzamento tecnologico e di assicurare che, esaurito il tempo dell’esclusiva, gli insegnamenti inventivi diventino patrimonio comune.
La critica “di massa” a questo sistema non è pro-concorrenziale, cioè a dire non lamenta l’alterazione dell’equilibrio competitivo certamente – ma inevitabilmente – prodotta dal brevetto: al contrario, si tratta di una obiezione anti-industriale e di matrice arcaica, sempre con tratti antiliberali di tipo statalista, per la quale l’invenzione è una cosa che cade dal cielo, una manna pubblica che bisogna proteggere dall’assedio dell’egoismo privato. Il tutto, con il puntuale accantonamento del dettaglio che si inventa meno dove c’è meno cultura brevettuale, e che nei sistemi illiberali – pour cause – il modello brevettuale semplicemente non esiste o è sostanzialmente fittizio.