Sembra paradossale, ma è necessario interrogarsi sulla natura vera dei rapporti tra il Partito democratico e il governo Draghi, perché si continua a percepire uno strano disagio.
Non è un “governo amico” (porterebbe sfortuna, vedi precedenti), a parole è anzi il «nostro» Governo, ma la sensazione di una certa ambiguità rimane. La vedova rimpiange l’antico compagno Giuseppi. Più che il nuovo congiunto, Mario Draghi sembra la scelta della convenienza e dell’obbedienza (al Quirinale). Una necessità, senza entusiasmo.
Eppure, il PD è l’unico Partito che non ha ragioni strumentali per stare dentro la scommessa unitaria dell’esecutivo Mattarella-Draghi.
I calcoli considerati astuti della Lega, le scelte governative disperate dei Cinquestelle, la possibilità per Forza Italia di rinviare il chiarimento con Salvini, sono tutti motivi contingenti che hanno portato alla rispettiva fiducia.
Per il Partito democratico, tutto dovrebbe essere invece più facile e più duraturo. Non dovrebbe fare grandi sforzi, né acrobazie leghiste, per aderire a un esecutivo europeista, atlantista, concentrato sulle regole dell’economia e della finanza, ispirato alla concretezza e al realismo, anti populista e anti sovranista.
Enrico Letta, a sua volta, dovrebbe essere il garante di tutto questo e dunque l’alleato più solido di Mario Draghi, ed è certamente così sul piano dell’intesa culturale e personale, ma resta l’impressione che il segretario si muova ancora come un corpo estraneo rispetto al corpaccione del suo partito. Un po’ piovuto dal cielo, quando già la soluzione era stata apparecchiata da altri.
Forse è solo la cifra di questo momento particolare, in cui i tre maggiori esponenti del quadro politico – Draghi, Conte e appunto Letta – non sono in perfetta sincronia con le macchine che devono rispettivamente guidare. Quello che appare è che un conto è Draghi e un conto il suo Governo, assemblato sulla base di spinte diverse, e comunque non proprio il Governo dei migliori, lo sappiamo dal primo giorno.
Un conto è il Pd e un conto è Letta, arrivato dalla Sorbona dopo aver accantonato i testi della teoria politica per occuparsi delle pratiche concrete di un ambientino se possibile peggiorato negli ultimi sette anni. Un conto, infine, è l’avvocato del popolo, mai iscritto al partito di cui sembra, si dice, si suppone che sia il nuovo capo (deciderà la Magistratura? Sarebbe una ciliegina molto M5style), e un conto l’ossimoro di un movimento che non si muove. Un coacervo di ambizioni frustrate, paralizzato da fatti ben più grandi dei piccoli e miserandi tormenti degli scontrini, dei doppi mandati, delle quattro lire da pagare a Casaleggio, della verginità perduta e ora sfondata con l’ultimo sfregio: affittare una sede anziché andare a sbafo, come accade da anni, negli uffici pubblici.
Tre soggetti – Governo, PD, 5S – tutt’altro che acefali, ma con la testa che sta da un’altra parte, non sulle spalle di qualcosa di convintamente omogeneo e coerente. Quasi un trapianto.
Per superare questa frattura psicologica ma soprattutto politica, Enrico Letta ha fatto inizialmente quanto era in suo potere, ad esempio mettendo insieme una buona segreteria, ma dando segnali che è stato facile per un Salvini sbeffeggiare: «si occupa di ius soli anziché di vaccini, vede le ONG anziché contrastare le immigrazioni», e via dicendo, secondo il dettato della demagogia più elementare e stantia.
Occorre insomma qualcosa di più e non è un buon segno che – nel vuoto generale – l’unico a produrre idee sia Goffredo Bettini, sia pur innervosito dalla bruciante sconfitta del cambio di Governo e dunque capace di ricorrere al trucchetto disperato del complotto, l’ultima storica spiaggia di tutte le sconfitte della sinistra. Idee compulsive, uscite dalla scatola del piccolo chimico che voleva costruire in laboratorio gambe di sinistra, di centro e liberali, quest’ultime da appaltare a un produttore esterno, in funzione accessoria rispetto alla strategia progressista di fondo: Giuseppe Conte gran federatore. Un leader, quest’ultimo, caduto non per un’opinione negativa degli osservatori nazionali e internazionali (che c’era, e dovrebbe far riflettere) ma semplicemente perché un Ciampolillo di passaggio non poteva bastare.
La verità è che per sostenere senza fronzoli, rimpianti e dubbi il governo Draghi, Il PD deve innanzitutto sbarazzarsi dal complesso Renzi, riconoscendo una volta per tutte che le sue ultime mosse – prima far fuori Salvini, poi Conte – sono state scelte politiche vincenti, di cui il primo a godere è proprio il PD.
Secondo, risolvere seriamente il nodo 5S, capendo che quel loro essere né di destra né di sinistra è segno non solo di confusione ma di vera destra, quella trionfante del Conte I (vedasi PM di Palermo che non distingue tra Salvini e Conte). Se continuano a considerarli dei progressisti e dei compagni di strada, tornerebbero a replicare la sudditanza della segreteria Zingaretti, caduta il giorno in cui il sondaggio ha rivelato il crollo dei democratici a favore del partito di Conte. Certo non può garantire un futuro radioso a una improbabile coalizione strategica un partito la cui consistenza elettorale dipende solo dall’eventuale travaso di voti dal contenitore Pd a quello pentastellato.
Letta diffidi pertanto da sondaggi costruiti sulla sabbia di un fazzoletto nel taschino o sulle passerelle Nato di un ministro degli Esteri che cerca credibilità voltando le spalle a Pechino per rendere omaggi un po’ troppo sperticati a Washington.