Acido lisergicoLe sostanze psichedeliche potrebbero aiutare a curare la depressione

La scienza sta finalmente spiegando come gli allucinogeni ingannano la mente aiutandola ad abbandonare alcune convinzioni. Come sostiene un articolo pubblicato su UnHerd, forse tra poco saremo in grado di usarle a scopo terapeutico per combattere malattie per le quali ancora non abbiamo una cura certa

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Negli ultimi anni gli studi sulle sostanze psichedeliche hanno permesso di rafforzarne l’uso terapetuico nella cura di alcune malattie psichiatriche. È conseguenza soprattutto di un sostanziale fallimento della psichiatria nel cercare risposte valide a patologie come la depressione – malattia che colpisce 264 milioni di persone nel mondo.

Le sostanze psichedeliche permettono di allentare la presa su modelli, schemi mentali e convinzioni che la depressione contribuisce a deteriorare e a far percepire come negativi.

Un recente articolo pubblicato su UnHerd cita gli studi di Robin Carhart-Harris, il direttore del Centre for Psychedelic Research all’Imperial College di Londra – il primo centro a occuparsi esclusivamente di ricerca sugli psichedelici per la cura delle malattie psichiatriche.

«Le sostanze psichedeliche come la psilocibina (il principio attivo dei funghi allucinogeni) e la dietilamide dell’acido lisergico (Lsd), sono strane droghe. Non ti rendono automaticamente più felice, come l’mdma, o più sicuro di te, come l’alcol. Fanno sembrare il mondo un posto sconosciuto, proprio come nella rappresentazione tipica più popolare di una persona che fissa la sua mano per ore», scrive su Unherd il redattore di scienza Tom Chivers.

L’analisi del dottor Carhart-Harris ha scoperto che proprio la psilocibina è efficace quanto Escitalopram – l’antidepressivo con le migliori prestazioni – nel trattamento della depressione.

La cosa interessante è che funziona esattamente come quell’adolescente stereotipato che cita Chivers: rimuove familiarità con tutto ciò che ci circonda, quindi sul modo in cui il nostro cervello interagisce con il mondo.

Lo studio su cui si basa questa nuova consapevolezza ha coinvolto 59 pazienti affette da depressione – moderata o grave – distribuite in modo casuale in due gruppi. A 30 persone è stata assegnata una cura di sei settimane a base di Escitalopram e una minuscola dose di psilocibina; all’altro gruppo un trattamento ad alto dosaggio di psilocibina più un ciclo di capsule di placebo.

Poi è stato valutato l’umore delle persone sottoposte al test utilizzando quattro scale standard di misurazione della depressione, due questionari compilati dai pazienti e due dai loro medici.

«I risultati sono stati intriganti», scrive Unherd: la risposta alla terapia del gruppo curato con Escitalopram è stata in linea con quanto atteso sulla base dei precedenti dati relativi agli studi sui farmaci; mentre la psilocibina ha funzionato molto più rapidamente, diminuendo i livelli di depressione già un giorno dopo la prima assunzione. E il tasso medio di risposta alla terapia è stato alla fine superiore al 70 per cento, oltre le aspettative degli stessi ricercatori.

Certo, vanno considerati alcuni dettagli non indifferenti, fa notare l’autore dell’articolo. In primo luogo si tratta di un piccolo studio, cioè fatto su un campione ristretto di persone. In secondo luogo, test di questo tipo andrebbero fatti in una determinata tipologia di esperimenti definita “doppio cieco” – cioè quelli in cui sia i pazienti sia il medico non sanno chi ha assunto il vero farmaco e chi ha avuto l’altra sostanza. Inoltre è difficile nascondere a una persona se non ha avuto, o meno, un viaggio psichedelico: mediamente negli studi clinici sugli antidepressivi Ssri normali, circa l’80% dei soggetti può dire correttamente se si trovava nel gruppo di trattamento o in quello che ha ricevuto placebo.

Terzo, le persone coinvolte nell’esperimento non sono state selezionate a caso ma si sono auto-candidate, ed erano probabilmente tutte persone che volevano provare sostanze psichedeliche: il dottor Carhart-Harris ritiene che coloro che non hanno avuto la «grande esperienza mistica che si ottiene con la psilocibina» sono probabilmente rimasti delusi.

Sono buoni motivi per essere cauti su questo studio. Ma il risultato è interessante da un punto di vista scientifico: è un altro dato incoraggiante all’interno di un insieme di prove che spiegano come gli psichedelici possano avere un effetto positivo sulla depressione.

Lo stesso Carhart-Harris è considerato uno dei ricercatori più influenti in quello che parte della comunità scientifica definisce Rinascimento psichedelico.

«L’aspetto più emozionante di questo studio è la sensazione di essere sull’orlo di un cambio di paradigma nell’assistenza psichiatrica legato a una migliore comprensione delle origini della depressione e di come possiamo curarla nel modo più efficace», dice il medico.

Secondo lui infatti queste scoperte potrebbero portare la psichiatria a favorire un modello che veda davvero depressione come una risposta adattiva alle difficoltà, e la allontani dalla prospettiva «obsoleta e miope del farmaco unico» dominante da decenni.

In questa nuova visione gli psichedelici – se somministrati in modo appropriato e nel giusto contesto – possono attivare stati cerebrali in grado di catalizzare profondi cambiamenti psicologici, e avviare di conseguenza una revisione sana e potenzialmente duratura di abitudini mentali e comportamentali difensive.

«Le sostanze psichedeliche – si legge su Unherd – mescolano le informazioni date dai sensi a un modello già esistente nella nostra mente. Se le nuove informazioni non soddisfano le aspettative, vengono ignorate o utilizzate per aggiornare il modello. Ad esempio anche se dovessi avere la sensazione che i muri si muovono come se stessero respirando, il mio modello del mondo ha questa forte convinzione precedente: i muri non respirano, quindi l’informazione viene ignorata come un’anomalia».

Ovviamente l’esempio riportato qui – quello dei muri che si muovono – è volutamente paradossale. Ma in tante altre circostanze potrebbe non esserlo: come ricordare il colore della tazzina in cui si beve il caffè tutte le mattine.

Ora, quello che sembrano fare gli psichedelici è ridurre la forza di questi modelli, le convinzioni precedenti, su qualsiasi cosa. Ciò significa che le nuove informazioni sensoriali in arrivo possono aggiornarli o modificarli più facilmente.

«La solida supposizione che i muri non respirino diventa molto più debole, quindi le percezioni rumorose o visive casuali dei tuoi occhi prevalgono e (come spesso accade con le esperienze psichedeliche) gli oggetti immobili sembrano muoversi. Alcune cose del tutto familiari che la tua attenzione normalmente ignorerebbe – come la tua mano – diventano strane e aliene», si legge nell’articolo.

Quel che fa la depressione, apparentemente, è consolidare uno schema mentale in cui il soggetto che ne soffre si percepisce in una condizione particolarmente negativa: «Se potessi avere, in qualunque modo, abbastanza informazioni da indebolire queste convinzioni riusciresti a venirne fuori. Ma normalmente non ci riesci», scrive Tom Chivers.

Ecco che possono avere un ruolo queste sostanze psichedeliche: aiutano a rendere meno salde queste certezze, meno definiti quei modelli presenti nella testa. Così sotto l’effetto di queste sostanze le convinzioni pessimistiche o negative vengono minate alla base, ovviamente insieme all’idea che i muri non si muovano.

«Questo modello – conclude l’articolo – sembra essere la cosa più vicina a una teoria su come funziona il cervello. Il fatto che ci sia una teoria convincente dietro la terapia psichedelica per la depressione non significa che sia vero. E poi c’è da contrastare una forte resistenza sociale e normativa all’uso di droghe ricreative come medicinali. Ma dobbiamo sperare che gli psichedelici si rivelino efficaci contro la depressione, quanto meno perché quasi nient’altro lo è. E i prossimi studi potrebbero dirci se gli psichedelici possano offrire nuove prospettive alla cura di malattie come la depressione».

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