Da imbonitori a influencerL’era in cui i celebri che fanno pubblicità sono considerati eroi

Una volta le persone famose che si prestavano a fare da testimonial erano accusate di “svendersi”, ma con i social invece contano i follower e quanto si riesce a far vendere. L’importante è mantenere una parvenza di autenticità

spada@Lapresse 30/07/2012

Ci fu un tempo in cui le celebrità che facevano spot non erano ben viste. L’accusa, inespressa ma avvertita, era quella di svendersi in cambio di qualche quattrino. La pratica danneggiava la reputazione, vi si ricorreva quando si era a fine carriera e bisognava pagare le bollette.

Come ricorda Amanda Hess sul New York Times, era l’epoca in cui, per fare un esempio, George Clooney si vergognava di fare la pubblicità della Nespresso in America. Gli spot erano trasmessi solo all’estero, ma l’attore americano venne scoperto grazie a internet e dovette giustificarsi spiegando che i soldi presi li aveva utilizzati per finanziare un satellite, il cui scopo era spiare un personaggio pericoloso in Sudan.

Non bastò, perché il problema non era cosa ne facesse dei guadagni, ma da dove venivano. L’immagine che veniva percepita era quella di un attore che, in patria, si percepiva troppo importante per abbassarsi a fare pubblicità. Ma all’estero non si faceva nessun problema a fare cassa grazie alla notorietà. Un doppio standard considerato inaccettabile. Era sempre l’epoca in cui, si può aggiungere, Kevin Costner prestava il suo volto per la réclame di una marca di scarpe e Richard Gere diventava un Ambrogio d’eccezione per la Ferrero Rocher. Le cose, poi, sono cambiate.

Come ricorda Hess, le star oggi sono rispettate e valutate anche (o forse soprattutto) in base ai profitti che sono in grado di generare. È l’epoca degli influencer, quella in cui le Kardashian non sono più viste come «delle imbonitrici malefiche ma come geni nascosti». Le conseguenze, a livello di percezione, sono notevoli.

È cambiato il concetto di fama, senza dubbio. Alle star di Hollywood si sono aggiunte le mitologie dei Ceo della Silicon Valley, allargando il quadro delle celebrità e spostando il fuoco, in modo impercettibile, dall’arte ai risultati. Saper vendere è diventata insomma una qualità intrinseca dell’essere celebrità. Da qui, a cascata, sono seguite tutte le trasformazioni. La prima è che i famosi hanno smesso di vergognarsi di fare pubblicità. E il pubblico ha smesso di considerarla un’attività che danneggia la loro reputazione. È un progresso, senza dubbio.

La seconda è che, con l’avvento social, la relazione tra testimonial, pubblico e prodotto è diventata sempre più stretta. Il rapporto personale (o almeno percepito come tale) tra fan e persona famosa si ha favorito, da parte del pubblico, l’esigenza di un rapporto sincero e autentico.

Al testimonial vecchio stile, pagato da una azienda per prestare la sua celebrità a un prodotto, si preferisce piuttosto quello che pubblicizza cose in cui crede davvero. Cose sue. Ed è anche per questo che tutti gli attori sono diventati anche imprenditori.

I casi sono infiniti: si possono citare i classici, come Jessica Alba per i tessuti bioloici o Rihanna nel campo del makeup, ma anche i cuscini di Ellen Degeners, o Post Malone e i suoi vini, per finire (ma solo per amor di brevità) con la cannabis di Snoop Dogg e la tequila dei Chainsmoker.

Il risultato è che la vocazione artistica (soprattutto in industrie come quella di Hollywood) è considerata fasulla. Si diventa famosi per vendere, le due cose sono sempre più intrecciate. La pubblicità non è più l’ultima spiaggia delle star bollite in cerca di soldi, ma il coronamento vero della carriera.

Insomma, il vecchio meccanismo del testimonial – il fan compra una cosa perché la pubblicizza il suo personaggio preferito – è cambiato. Come scrive Hess, «non ho acquistato il caffè di Catherine Zeta-Jones perché c’era una persona famosa a sostenerlo. L’ho preso per essere io a sostenere lei». I termini della questione si sono invertiti. Ma il prodotto non è cambiato: «I miei soldi sono finiti a lei».

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