Stella nera sulla CinaLa Nuova Via della Seta sembra diventata una strada senza uscita

L’accordo sugli investimenti tra Pechino e l’Unione europea (Cai), firmato timidamente nel dicembre scorso dopo sette anni di trattative e trentacinque round negoziali, si è già incagliato in sanzioni, controsanzioni, ripensamenti. E a questo raffreddamento dei rapporti non è estranea la ritrovata intesa transatlantica tra i Ventisette e Washington

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Una Via della Seta lastricata di ostacoli. Dopo appena quattro mesi dalla firma, è arrivato l’altolà della Commissione europea all’accordo sugli investimenti tra Cina e Unione europea. Che l’iter per l’approvazione del Comprehensive Agreement on Investment (Cai) fosse pieno di incognite era cosa nota, ma che dopo sette anni di fitte trattative e trentacinque round negoziali ci si sia arenati poco dopo l’intesa è un segno evidente che tra Pechino e Bruxelles tira una brutta aria. «Con le sanzioni dell’Ue contro la Cina e le contro-sanzioni cinesi, che colpiscono anche membri del Parlamento europeo, il clima non è favorevole alla ratifica dell’accordo», ha spiegato il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis all’agenzia France Presse; aggiungendo che le sorti dell’intesa dipenderanno «da come si evolvono le relazioni bilaterali». Per il momento indietro tutta, insomma.

Il Cai, sostituendo i ventisei accordi bilaterali attualmente in vigore, si proponeva di affrontare le tre grandi criticità che hanno tradizionalmente caratterizzato l’ingresso della Cina sui mercati globali: reciprocità di accesso al mercato, parità di condizioni per tutti gli operatori e regole condivise su clima, salute e lavoro. Con un certo scetticismo sull’esito di tutte e tre. Lo scorso 30 dicembre il patto era stato siglato tra gli imbarazzi, senza riflettori e senza conferenza stampa a suggellare l’avvenimento. Joe Biden non si era ancora insediato alla Casa Bianca, ma da Washington già filtravano malumori. Eppure la firma ci fu, fortemente caldeggiata da Angela Merkel come punto di approdo del semestre di presidenza tedesca del Consiglio europeo.

Da sempre i rapporti tra l’Unione europea e la Cina sono dominati dalla Germania. All’approccio della rivalità sistemica tra Pechino e tutte le democrazie liberali, Berlino ha sempre preferito il “partenariato strategico”, anche in ragione delle intense relazioni economiche tra i due Paesi. Basti pensare che nel 2019 la Cina è stata il più grande partner commerciale della Germania per il quarto anno di fila e che le case automobilistiche tedesche vendono più veicoli in Cina che sul territorio nazionale. Non stupisce allora che al congresso della Cdu sulle relazioni transatlantiche Angela Merkel si sia sentita in dovere di dichiarare che «l’accordo è importante nonostante le difficoltà attuali» .

E proprio con le rinsaldate relazioni transatlantiche si spiega in larga parte la decisione di Bruxelles di “sospendere gli sforzi di sensibilizzazione politica” per far ratificare l’accordo agli Stati membri e al Parlamento europeo (il resto è imputabile all’indebolimento del traino tedesco, con l’uscita di scena di Merkel alle elezioni del prossimo 26 settembre). A ben vedere lo stop della Commissione europea è arrivato proprio nel giorno in cui a Londra il segretario di Stato americano Antony Binken riusciva a ottenere l’impegno dei Paesi del G7 a contrastare l’egemonia cinese con un’azione coordinata. Una retromarcia rispetto alla storia degli ultimi anni, soprattutto quelli di Donald Trump alla Casa Bianca, quando l’Europa si era sentita libera di trattare con Pechino senza le briglie degli Stati Uniti.

I rapporti tra le capitali europee e la Cina si sono incrinati a marzo, quando per la prima volta dal 1989 l’Unione europea ha imposto sanzioni contro la Cina, motivate dalle violazioni dei diritti umani nella provincia dello Xinjiang contro gli uiguri musulmani. La ritorsione della Repubblica popolare non si è fatta attendere e ha colpito eurodeputati, parlamentari nazionali e think tank europei, innescando la miccia di un’escalation che smorza ogni inclinazione a un avvicinamento.

E se è vero che i commenti di Dombrovskis non indicano una sospensione formale del patto, indubbiamente gli animi si sono raffreddati («Potrebbero volerci altri sette anni per arrivare alla ratifica» ha detto il presidente della Camera di Commercio dell’Ue in Cina).

Come se non bastasse, il governo tedesco ha recentemente approvato la “seconda legge per aumentare la sicurezza dei sistemi informatici”. L’obiettivo non dichiarato è regolamentare la società di telecomunicazioni cinese Huawei: non le sarà impedito di partecipare all’espansione della rete 5G in Germania, ma le barriere all’ingresso saranno alte. In precedenza, l’ambasciatore di Pechino a Berlino aveva apertamente minacciato che il suo Paese non sarebbe «rimasto a guardare» se Huawei fosse stata boicottata. E così crescono i motivi di conflitto.

Tanto più che la Commissione europea ha rincarato la dose, presentando in questi giorni una nuova proposta che guarda dritto in faccia alla Cina (sempre senza fare nomi). L’idea è tutelare le imprese europee e bloccare scalate e operazioni ostili rese “opache” dai sussidi di governi extra-Ue. Una vera e propria diga contro l’espansionismo cinese nel Vecchio Continente.

L’obiettivo della Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager è garantire parità di condizioni, evitando che gli aiuti di Stato possano distorcere la concorrenza sul mercato interno. Chi usufruisce di sussidi pubblici, infatti, ha una chance che altri non hanno di vincere bandi di gara o acquisire società. Il provvedimento è stato richiesto a gran voce nei mesi scorsi da alcuni Paesi membri, preoccupati che il governo di Pechino possa sovvenzionare lo shopping di know-how e tecnologie europee.

Se l’iniziativa legislativa andrà a buon fine, sotto la lente di Bruxelles finiranno tutte le acquisizioni di importo superiore ai 500 milioni e tutte le commesse con valore eccedente i 250 milioni, rispettivamente effettuate od ottenute da soggetti che hanno ricevuto sovvenzioni estere. A quel punto scatterà automaticamente un’indagine e, in caso di contributi pubblici ingiustificati, anche le sanzioni di riparazione. Si alza quindi uno scudo regolatorio in difesa delle aziende Ue.

Insomma, nel giro di pochi mesi l’universo dei rapporti tra Cina e Occidente è stato più che capovolto. Washington ha ventilato la possibilità di un boicottaggio delle Olimpiadi invernali del 2022 a Pechino, mentre il Bundestag discuterà a metà maggio se il trattamento degli uiguri debba essere etichettato come genocidio. E ben lontana appare la primavera del 2019, quando il leader del Partito comunista cinese veniva accolto in Italia in pompa magna da Luigi Di Maio, per siglare il memorandum della Nuova Via della Seta.

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