La svolta para-garantista di Luigi Di Maio, autore ieri di una lettera al Foglio dedicata al caso dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, in cui ha chiesto scusa e fatto autocritica per «l’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale», ha innescato un interessante dibattito, che si può ridurre fondamentalmente a due posizioni. La posizione di chi sostiene sia da prendere sul serio e quella di chi sostiene sia una presa in giro.
Chi abbia ragione lo si vedrà molto presto, perché la serietà di una simile posizione non si misura sugli scandali passati, ma sui successivi. E perché, per quanto riguarda il passato, se adesso i Cinquestelle dovessero scusarsi con tutti coloro che hanno ingiustamente coperto di fango e che poi sono stati assolti, o neppure rinviati a giudizio, non resterebbe tempo per parlare d’altro di qui al 2026, e la cosa diventerebbe pure noiosa.
Certo, definirla la Bolognina del Movimento 5 stelle, come ha fatto il direttore della Stampa, Massimo Giannini, appare quanto meno prematuro. Ma c’è giusto una riforma della giustizia in discussione, dunque non c’è bisogno di accapigliarsi sulle definizioni e nemmeno di aspettare il prossimo caso giudiziario: se e quanto la lettera di Di Maio preluda davvero a una svolta, o sia solo l’ennesima giravolta, lo vedremo prestissimo.
Resterebbe poi da capire, a margine, che cosa abbiano fatto i Cinquestelle a Lodi di diverso da quello che hanno fatto in ogni altra città d’Italia, e sui loro blog, canali Youtube e profili social, ufficiali e non ufficiali, ogni singolo minuto di ogni singolo giorno della loro esistenza, dal primo momento in cui il movimento fu fondato, nel corso di una manifestazione che peraltro non mi pare si chiamasse Voltaire Day.
A ogni modo, quale che sia il valore da attribuire alle parole di Di Maio, una cosa è sicura: in questo improvviso rivolgimento non c’è niente di strano.
Ai tempi di Mani Pulite le televisioni di Silvio Berlusconi erano schierate dalla parte dei magistrati come un sol uomo, e lo stesso leader di Forza Italia, è noto, avrebbe voluto Antonio Di Pietro come ministro nel suo primo governo, nel 1994. In quegli stessi anni la Lega sventolava il cappio in Parlamento e il Movimento sociale lo cingeva d’assedio gridando: «Arrendetevi, siete circondati!». Oggi ciascuno di questi partiti è dichiaratamente e risolutamente garantista, con qualche esitazione nel caso in cui sotto inchiesta finiscano gli avversari e senza esitazione alcuna nel caso in cui ci finiscano gli immigrati (nel senso che, in quel caso, diventano istantaneamente forcaioli).
La svolta para-garantista di Di Maio segue dunque questo copione consolidato, secondo una parabola e una tempistica che ricalca quella di tutti i movimenti populisti che l’hanno preceduto. E al tempo stesso, bisogna riconoscerlo, li supera. Li semina. Li straccia.
Perché quegli altri hanno cavalcato il populismo giustizialista nel momento in cui lo hanno ritenuto conveniente e ne sono scesi quando si sono convinti del contrario. Ma il Movimento 5 stelle non ha cavalcato un bel niente, e dunque non si capisce come e da che cosa potrebbe scendere, essendo semmai il cavallo. Tolto «l’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale», che gli resta?
Lo so, lo so. Ci sarebbe sempre quell’avvocato che ieri si è affrettato a dichiararsi d’accordo con Di Maio, per poi aggiungere pomposamente: «Ho inserito il primato della persona e della sua dignità nella Carta dei principi e dei valori del neo-Movimento 5 stelle». Ma davvero non so se mi metta più tristezza la tempistica, con il presunto leader costretto ad accodarsi al ben più abile predecessore, per manifesta incapacità di combinare autonomamente alcunché di significativo, o quel «neo» appiccicato malamente sulla vecchia insegna grillina, nella speranza che basti per sfuggire ai creditori.