Si paga la qualità. Si pagano i contenuti esclusivi. Si pagano i servizi speciali. Potrebbe sembrare una ovvietà ma nel mondo del digitale, troppo a lungo dominato da un business model fondato sull’algoritmo e sui contenuti gratuiti, è più una rivoluzione. Per anni il meccanismo di social come Facebook si era basato su un semplice assunto: l’utente postava i suoi contenuti e spettava all’infrastruttura individuare quelli di maggior successo, o più promettenti, per convogliare più traffico in quella direzione.
È la tecnica dell’aggregazione, che ha permesso al social di Mark Zuckerberg di raggiungere un giro di affari di 92 miliardi di dollari all’anno di pubblicità, utilizzando materiale fornito da utenti non pagati e contenti. Twitter, in modo analogo, ne incassa 3,4 infilando annunci nello scroll dei suoi 350milioni di twittatori.
Vivere su una app è insomma una sorta di «stage gratuito infinito», ricorda l’Economist in questo articolo, citando un tweet del giornalista americano Samhita Mukhopadhyay.
Le cose però stanno cambiando e, per i creatori di contenuti, è una buona notizia. Sono sempre di più le piattaforme che, in cambio dell’esclusiva dei contenuti, offrono un pagamento agli autori.
Uno dei più famosi è OnlyFans, dove è necessario iscriversi e pagare una quota per ogni persona che si intende seguire (spesso è impiegato per contenuti di tipo erotico ed esclusivo). Per le newsletter c’è Substack, che dà ai suoi autori il 90% del ricavato. I suoi 10 contributor maggiori totalizzano, insieme, 15 milioni di dollari di ricavato all’anno.
Il mondo dei videogiochi, uno dei più promettenti e redditizi, vede Roblox e Twitch. Il primo consente agli utenti, con la sua formula freemium, di giocare gratis ma di pagare per sbloccare alcune feature particolari (e il ricavato finisce in parte ai creatori). Su Twitch, di proprietà di Amazon, invece si paga per vedere gli utenti che giocano (e ricevono il 50% delle sottoscrizioni).
In tutt’altro ambito c’è Cameo, una piattaforma in cui 40mila celebrità vendono ai fan video personalizzati.
Insomma, il panorama sta cambiando. Il modello di riferimento non segue più la tirannia dell’algoritmo ma si basa sulla capacità di attirare fan. Chi ha successo è riuscito a costruire un seguito di persone disposto a pagare per avere accesso ai contenuti. Di fatto, è un ritorno alla tradizione, anche se tradotto in forma digitale.
Le dinamiche in atto sono quelle già viste. Come spiega Simon Kemp di Kepios all’Economist, «sembra di vedere i vecchi network televisivi che negoziano con gli attori di Friends». Ai creatori di contenuti più di successo toccano soldi e potere, dal momento che sempre più social si combattono per fare loro la corte.
Del resto anche Twitter e Facebook sono corsi ai ripari e hanno creato immediate repliche dei concorrenti. Il primo ha acquistato un servizio di newsletter, Revue, e ha tagliato la quota di commissione al 5% delle revenue (la metà di Substack). A maggio ha anche introdotto Spaces, l’equivalente di Clubhouse e presto permetterà agli utenti di vendere i biglietti delle chat.
Anche Facebook ha introdotto un sistema di abbonamenti a pagamento per alcuni contenuti e sta testando un sistema simile a Cameo, oltre che – poteva mancare? – un’altra piattaforma di newsletter e una copia di Twitch, che sarebbe Facebook Gaming. Ma lo stesso fanno anche piattaforme come Youtube, che ha già deciso di dare ai creatori il 55% delle revenue derivate dai loro contenuti. È anche quella che, negli ultimi tre anni, ha pagato i suoi contributor più di tutti: 30 miliardi di dollari. TikTok ha messo in piedi un fondo per i suoi utenti, che distribuirà un totale di due miliardi di dollari nei prossimi tre anni.
Apple e Spotify puntano sul mondo dei podcast e hanno già deciso che i loro creatori potranno mettere contenuti a pagamento.
Il meccanismo della “robloxizzazione” delle piattaforme è appena iniziato e già si vedono i primi vincitori. Si tratta, senza dubbio, delle megastar del web, celebrità e influencer in grado di guadagnare milioni di dollari grazie ai loro contenuti.
Ma, fa notare l’Economist, c’è spazio anche per la crescita di una classe media digitale. Finora il mezzo principale per la monetizzazione era la pubblicità e per guadagnare bene era necessario avere un seguito enorme. Per capirsi, un milione di visualizzazioni su Youtube significava duemila dollari di revenue. Su piattaforme di qualità minore, come Pornhub, un milione di visite si traduceva spesso in 600 dollari.
Ora, con il trend delle sottoscrizioni, per avere un pagamento sufficiente il numero dei fan può essere più contenuto (purché questi siano disposti a pagare di più).
Il caso del giornalista sportivo Craig Morgan, che dopo aver perso il lavoro all’Athletic ha aperto una sua newsletter personale su Substack, racconta bene questa dinamica: dopo 10 mesi ha raggiunto un migliaio di follower che pagano un minimo di cinque dollari al mese. Si è assicurato così uno stipendio.
Il numero di giornalisti passati alla newsletter, da Glenn Greenwald al Matthew Yglesias, preoccupa i media tradizionali (giornali e case discografiche) che da questa ennesima evoluzione hanno solo da perdere. Il New York Times, per capirsi, impedisce ai suoi redattori di aprire una newsletter se non hanno il permesso.
Siamo allora all’alba forse di una nuova sfida, che toglie potere all’algoritmo (o meglio: ne riduce l’impatto) e cerca di dare valore alla qualità dei contenuti o, almeno, alla loro popolarità. Ma se a guadagnarci sono gli autori (i creator) e non soltanto le piattaforme che li distribuiscono, sembra un passo in avanti per una collaborazione più leale.