Egoismi nazionaliNon basta l’accordo sulla blue card per risolvere il problema dell’immigrazione

Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno concordato criteri meno rigidi per l’ingresso legale dei lavoratori extra-comunitari, abbassandro le soglie salariali. Ma rimane lo stallo nelle trattative tra gli Stati membri sulla redistribuzione delle persone approdate a Lampedusa e sulle coste italiane, così come quelle sul Pact on Migration. E dall’inizio dell’anno sono già 685 le vittime dei mancati soccorsi nel Mediterraneo

LaPresse

Da una parte l’Unione europea apre le porte ai cittadini extracomunitari e al loro «importante contributo» all’economia. Dall’altra non riesce a trovare soluzioni per chi è arrivato senza invito, né a impedire tragedie quasi quotidiane a largo delle sue coste. Consiglio e Parlamento europeo hanno trovato un accordo sulla revisione della Blue Card, il sistema che permette l’ingresso nell’UE ai lavoratori provenienti da Paesi terzi, a condizione di soddisfare determinati requisiti. Il testo della direttiva risale al 2009 ed è stato aggiornato concedendo criteri d’ingresso meno stringenti. 

A un lavoratore straniero che vuole entrare in uno Stato europeo sarà sempre richiesto di avere in mano un contratto o un’offerta vincolante di lavoro, ma il minimo della durata di questo accordo scende da 12 a sei mesi. Tra i criteri di ammissione ci sono anche le qualifiche professionali relative al lavoro da svolgere, che l’applicante deve presentare prima della partenza: un nuovo sistema di regole dovrebbe facilitare il riconoscimento delle competenze possedute.

Soprattutto, le nuove regole abbassano la soglia salariale che un cittadino extracomunitario deve raggiungere. Fino a ora il minimo dello stipendio necessario per una Blue Card era 1,5 volte la retribuzione media annuale lorda nello Stato in cui il lavoratore si spostava. Per trasferirsi in Italia, ad esempio, serviva un contratto di lavoro da quasi 25mila euro lordi all’anno. Da ora in poi, invece, basterà una busta paga uguale alla media nazionale. 

Chi entra nell’Unione con una Blue Card potrà poi cambiare lavoro nei primi 12 mesi restando nello Stato membro d’arrivo e trasferirsi in un altro Paese dopo un anno. I migranti qualificati saranno autorizzati anche portare con sé i propri familiari, a cui sarà consentito accedere al mercato del lavoro. Ultima ma non meno significativa novità, al permesso lavorativo potranno accedere anche i beneficiari di protezione internazionale, cosa che dovrebbe facilitarne l’integrazione.

La nuova direttiva dovrà ora essere approvata formalmente prima dalla Commissione Libertà Civili e poi dalla plenaria dell’Eurocamera, così come dai rappresentanti degli Stati Membri riuniti nel Consiglio europeo: una formalità, prevista nelle prossime settimane. 

La Blue Card è un valido strumento per favorire la migrazione legale, anche se fino a ora i numeri registrati negli Stati europei non sembrano esaltanti. Stando agli ultimi dati disponibili, il meccanismo si è dimostrato efficace soltanto in Germania, dove sono stati rilasciati quasi 27mila permessi di lavoro nel 2018. Tra gli altri membri dell’UE, solo la Francia ha superato quota mille Blue Card, l’Italia si è fermata a 301 (dati del 2017) e la Spagna solo a 39. Cipro e Grecia non hanno rilasciato nessun permesso. 

 «L’accordo di oggi ci consentirà di sopperire alle carenze di competenze e renderà più facile l’ingresso per i professionisti altamente qualificati», ha commentato il commissario alla Promozione dello stile di vita europeo, Margaritis Schinas. Parole di elogio sono arrivate anche dalla commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson. Ma se questa manodopera qualificata è ben accolta per  «l’importante contributo all’economia comunitaria», lo stesso non si può dire per i protagonisti delle rotte migratorie irregolari, in questi giorni al centro delle preoccupazioni della Commissione.

Schinas e la presidente Ursula von der Leyen hanno espresso solidarietà alla Spagna, dopo che migliaia di cittadini marocchini sono entrati, a nuoto, nell’enclave di Ceuta in questi giorni. Johansson, in un’intervento al Parlamento europeo, si è soffermata sui naufragi avvenuti di recente nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico, tra l’Africa e le isole Canarie, ribadendo che «salvare le vite in mare è un dovere morale è un obbligo legale». Parole già sentite nell’emiciclo: come ha ricordato il deputato francese dei Verdi Damien Carême, dall’inizio della legislatura questo è il quarto dibattito sul tema, più di sette ore di discorsi che non hanno portato risultati. 

In mare, infatti, si continua a morire: dall’inizio dell’anno sono già 685 le vittime nel solo Mediterraneo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. È un dramma senza tregua: due imbarcazioni con quasi cento persone a testa rischiano il naufragio a largo di Malta, secondo l’ultimo allarme dell’Ong Mediterranea. Nel frattempo a Bruxelles va in scena l’ennesimo «ridicolo rito del dolore», come lo definisce nel suo intervento l’europarlamentare del Partito Democratico Pietro Bartolo. 

Le operazioni di ricerca e salvataggio dei naufraghi sono competenze degli Stati Membri e resteranno tali: la Commissione europea si è limitata ad emanare una raccomandazione lo scorso settembre e può fare poco altro, vista la reticenza di alcuni Paesi a finanziare operazioni che, nella loro ottica, potrebbero favorire nuove partenze. Per questo motivo, ricerca e salvataggio sono esclusi anche dal mandato della missione navale Irini, che tra l’altro viene valutata ogni quattro mesi proprio per assicurarsi che non costituisca un pull factor per i migranti.

Le buone intenzioni superano di gran lunga gli atti concreti pure per quanto riguarda la redistribuzione di coloro che in Europa sono riusciti ad arrivare. A fronte dei recenti approdi sull’isola di Lampedusa, oltre duemila persone in pochi giorni, la Commissione si è attivata per richiedere agli Stati europei di accogliere sul proprio territorio parte dei migranti. Al momento, senza risultati apprezzabili: solo l’Irlanda ha accettato di ricollocare dieci persone, un impegno ai limiti del simbolico, che comunque Johansson non ha mancato di applaudire. 

Può sembrare un controsenso, del resto, chiedere con insistenza sforzi volontari e non è pensabile intavolare una diversa, estenuante trattativa a ogni incremento dei flussi migratori. Anche per questo la Commissione aveva proposto una modifica strutturale nel suo Pact on Migration, presentato lo scorso settembre. Il meccanismo ideato non sarebbe la soluzione a ogni situazione, ma perlomeno attiverebbe ricollocamenti obbligatori (sostituibili con rimpatri a proprio carico) quando uno dei Paesi del Sud Europa si trova sotto pressione. La distribuzione per quote si applicherebbe, tra l’altro, anche a tutte le persone salvate in mare, cosa che spingerebbe, forse, i Paesi costieri a favorire le Ong impegnate nei salvataggi anziché ostacolarle. 

I negoziati sul pacchetto di politiche migratorie faticano però ad avanzare. Di recente la commissaria agli Affari Interni ha definito i progressi “lenti” e pure il ministro degli interni portoghese Eduardo Cabrita, incaricato di trovare una posizione comune fra i suoi omologhi europei, ha ammesso che si tratta di uno dei temi più complicati in agenda. 

Non è un mistero che i Paesi del blocco di Visegrad siano piuttosto ostili alle proposte del Pact on Migration, che per la verità non sembrano convincere nemmeno diverse capitali del Nord Europa. Le trattative negli incontri di Bruxelles si annunciano lunghe e complicate; l’estate sulle rotte migratorie anche. 

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